Non si può rinunciare a se stessi

Io credo che non si può rinunciare a se stessi. Che la vita è così e va accettata per quello che è non per quello che vorremmo fosse

Era sera inoltrata, qualche giorno fa, una Regina (ex principessa precipitata anni fa in un girone infernale, e poi risalita e “promossa” a Regina, vitale, avveduta, saggia, salda sul trono del suo regno) mi confida quel pensiero.

Sa perfettamente che dicendo “se stessi” indica la moltitudine dei nostri tanti “Io”, roba complessa, ma quella sera ha preferito adottare il linguaggio comune… impossibile rinunciare a se stessi, già, e chi non sarebbe d’accordo?

Per non parlare della vita che è quel che è, da accettare per quel che è, che spesso non è quello che vorremmo. Punto.

La Regina è sapiente, e quindi sa che di che cosa è la vita non sappiamo, propriamente, nulla, conosciamo solo le azioni che possiamo mettere in campo per averci a che fare, niente altro, niente di più, niente di meno.

Aveva avuto una giornataccia, firma sull’accordo di divorzio, costato lacrime, sudore e sangue… e, come diceva un mio vecchio maestro, quattrini, tanti, proprio tanti. Regina sì, ma mica di ferro, di carne e sangue, perbacco, splendidamente viva e vitale… e umana.

Stanca, povera Regina, ferita, delusa, triste, con una voglia enorme di rivincita, e, in genere, una grande energia… ma quella sera era quella sera, alla fine di una giornataccia.

Ciò che mi ha confidato stava ( e sta) dentro la cornice di quella giornata, alla fine, non voluta né cercata, di una vicenda difficile e tormentata, molto più grande e lunga del matrimonio, durato in fondo “solo” vent’anni, che coincide con la fine della distruzione di un disegno magnifico iniziato oltre venti anni prima del matrimonio.

Quando si è stanchi e provati, è molto difficile pensare… quasi tutti noi dobbiamo accontentarci del già-pensato, del ri-pensare pensieri già pensati, mentre abbiamo a che fare con ciò con cui abbiamo a che fare, “la vita”… già, la vita.

La Regina lo sa, in quel momento mi è sembrato che la cosa migliore che potevo fare per aiutare lei e me ad attraversare quel passo era di accogliere quella piana, piatta e inutilizzabile confidenza.

Ho giudicato che non fosse né il momento, né il luogo, né il modo adatto per invitare la mia Regina ad uno sguardo diverso, uno sguardo che lei conosce benissimo… e tuttora penso di aver preso una buona decisione.

In altre condizioni avrei potuto e quasi certamente voluto invitarla al gioco che tante e tante volte abbiamo fatto insieme, a migliaia di chilometri di distanza, grazie alla rete, con reciproca soddisfazione, riconquistando, passo passo, il sentiero che ci ha permesso di tornare a riveder le stelle.

Appena avesse detto “Io credo che non si può rinunciare a se stessi. Che la vita è così e va accettata per quello che è non per quello che vorremmo fosse” avrei più o meno ruggito (sì, vabbè, è per indicare energia e forza del tono e del modo): ma che diavolo vuol dire, mia Regina?

Sarebbe stata una magnifica e lunghissima battaglia, da cui saremmo entrambi usciti vincitori: il nemico non è mai stata la mia Regina, io ne sono devoto e leale servitore da decenni. Il nemico è il buio, l’oscurità quasi impenetrabile che impedisce di individuare e distinguere le radici di quella malaerba che infesta i giardini di tutti noi…

Vorrei certo poter condividere ora tutto il film, ci vorrebbero ore, non possiamo, mi dispiace molto… adesso servono scorciatoie, anche se non saranno tanto brevi…

Che cosa diavolo vuol dire “non si può rinunciare a se stessi”? Please define “se stessi”! Se chiedete questo aspettatevi che, normalmente, otterrete un guazzabuglio incoerente di parole, o altri sinonimi ugualmente oscuri e incomprensibili, del tipo, ma che domanda è, io sono io, no? è ovvio, no? a meno di suicidarmi (e non ci penso neanche), è impossibile per me rinunciare a me, no?

No. Ma proprio un secco e chiaro no. Non solo questa non è una risposta, ma è anche collegata ad un altro punto chiave totalmente oscuro, che è “rinunciare”: please define “rinunciare”!

Questa pare più facile, e non lo è affatto.

Cominciamo dal “se stessi”, spacciato per “io”… se stessi mi è più simpatico, abbiamo sotto gli occhi, tutti i giorni, che noi siamo più di uno, singolo, chiaro, stabile, monolitico, costantemente uguale a se stesso: sono questi “io” molteplici che ci permettono di interagire in modo fluido e diversificato con i diversi modi e configurazioni delle nostre vite, che costantemente trasfondono da una in una diversa.

Concedo volentieri che tutti questi “io” lavorino in modo integrato e “coerente”, e che questo  lo si chiami “io” non mi dà nessun fastidio… potremmo chiamarlo pippo, pluto, o paperino, il nome non è la cosa, il nome che diamo alle interazioni NON sono le interazioni: la nostra sopravvivenza NON dipende dai nomi, ma da come riusciamo a governare le interazioni reali.

E quindi se stessi in che senso? Nel senso dei tanti Io che siamo? E che cambiamo (poco o tanto) nel tempo? Dato che li “cambiamo” (a 50 anni non facciamo più come facevamo a 5), come si fa a dire che “non si può rinunciare a se stessi”… logico, no?

Saremmo stolti a non ascoltare il non detto, e non siamo stolti. C’è un non-detto? Sì.

Il non detto è la radice, sono le radici dei tanti Io che siamo, loro possono cambiare, anche uscire di scena, più o meno definitivamente. Ma non può mai scomparire la radice che li rende necessari, essa, esse, sono carne e sangue.

Occorre scavare sotto, oltre i desideri, ed arrivare a ciò di cui abbiamo bisogno, e riconoscere con grande semplicità che i nostri desideri sono il modo, la “forma” migliore che abbiamo trovato e costruito per placare i nostri numerosi bisogni vitali… e restare vivi.

E su questo piano la mia Regina dice il vero: a questo, a nessuno è possibile rinunciare.

Entro certi limiti, diversi per ciascun specifico tipo di bisogno, per tempi più o meno lunghi,  possiamo pazientare, attendere, sopportare la assenza di soddisfazione: rinunciare no, se non rinunciando alla vita, alla vita reale, fisica, che per noi coincide con una “sufficiente” integrità del meravigliosamente complesso sistema vivente che noi tutti, ciascuno di noi, indubitabilmente è.

Oltre quei limiti, il nostro sistema semplicemente collassa, cessa di “funzionare” come ha funzionato sino ad un istante prima: questo è ciò che noi chiamiamo morte.

Freud non era un fisico, ha dovuto inventarsi la pulsione di morte per far quadrare i conti, non sapeva, probabilmente, della geniale intuizione della entropia, Sadi Carnot, 1824 : non c’è bisogno di una pulsione di morte, l’entropia basta e avanza. Il nostro sistema non è più in grado di mantenere il proprio livello di entropia al di sotto della soglia, simile in tutti gli individui della nostra specie, oltre la quale il nostro sistema, semplicemente, collassa in modo irreversibile.

La nostra macchina, meravigliosa, perfetta, lo sa, prima delle parole, prima dei pensieri, da una profondità per noi inimmaginabile, con una potenza che trae energia da dove non sappiamo, nessuno sa: no, questo è irrinunciabile, prima di ogni volontà, desiderio, bisogno.

Ma solo questo, e null’altro. Il resto può essere cambiato. Al resto possiamo “rinunciare”. E lo facciamo, tutti, ogni giorno.

E adesso diamo un’occhiata alla vita che è quel che è. Okay, Regina, me la spieghi di più? Così non riesco a capire che cosa intendi, e ci tengo tantissimo.

Ehi, mi devo fermare, sono quasi duemila parole, pare che oggi siano la soglia oltre la quale il “lettore medio” perde la presa… statistica, gaussiana, quella robaccia là,

Okay, altro post, il titolo sarà, probabilmente: La vita è quel che è.

Ci vediamo dopo.