Elogio del panico

molti anni fa

...avrò avuto vent’anni o poco più, una amica, che da tempo corteggiavo senza successo, mi confidò di aver passato un periodo terribile, gravi crisi di panico, non riusciva ad uscire di casa, non sapeva che cosa fosse, non sapeva a chi dirlo, non sapeva come rimediare…

A quel tempo non sapevo assolutamente niente delle crisi di panico, ero molto esperto di tristezza, di angoscia e di rabbia, nel senso che ero spesso arrabbiato, e volte triste, a volte angosciato, ma niente panico.

Una decina di anni fa, un amico, poco più che quarantenne, professionista di buon successo e gran lavoratore, mi raccontò che gli era già successo tre volte di uscire dall’hotel, dove aveva preso alloggio durante una delle sue frequenti trasferte, e di stramazzare, quasi uno svenimento, corsa al più vicino pronto soccorso, accertamenti approfonditi e ripetuti indicavano: nulla, nulla di nulla. La prima volta aveva dato la colpa all’aria condizionata, la seconda e la terza però l’aria condizionata non c’era… ricostruendo le sequenze dei fatti, il responso che si era dato, poi confermato da un altro paio di specialisti, era: crisi di panico.

A quel tempo, sapevo un po’ di più del panico, ma non abbastanza da sentirmi in grado di aiutare il mio amico, chiesi indicazioni a persone di mia fiducia, e gli indicai uno dei due specialisti che poi il mio amico consultò.

Qualche anno fa, un manager, che poi divenne mio allievo, mi raccontò che gli stava succedendo una cosa enormemente fastidiosa, nel bel mezzo di una presentazione, argomenti di suo totale dominio, presentazioni eseguite innumerevoli volte, si bloccava, non sapeva più proseguire… panico. Essendosi la cosa ripetuta più volte, adesso il panico arrivava anche prima della presentazione. Riuscimmo a risolvere la cosa, ricorrendo alla sistemica, in tempi brevi, con sua piena soddisfazione, ho iniziato a scriverne, stress da presentazione.

Ancora, qualche anno fa, un altro manager, anche lui diventato poi mio allievo, mi raccontò di venire quotidianamente assalito da previsioni catastrofiche, il suo lavoro di anni totalmente distrutto, in miseria totale, scacciato dalla moglie, senza casa e senza risorse… insomma, panico!, nonostante il fatto, stabile, che il suo lavoro stava andando bene, con una crescita costante, che la moglie dava quotidiana prova di essergli affezionata e devota, insomma che le cose andavano, in verità, bene, se non benissimo. Risolvemmo abbastanza rapidamente la cosa, ricorrendo alla sistemica, con nostra soddisfazione.

Ci furono anche Elizabeth, e Catherine, e Violet, e alcuni altri allievi, che, in misura maggiore o minore, ebbero a che fare con il panico… tutti loro mi hanno aiutato a trovare le prove che la sistemica del comportamento umano permette di “risolvere” stabilmente questo tipo di ostacolo al benessere, ad una buona qualità della vita, si tratta di “studiare”, per un certo periodo con il mio aiuto, e poi fino a quando ne hanno desiderio, nessuna terapia, niente farmaci, almeno non per loro.

Studiare che cosa? Il nome della materia è Sistemica del Comportamento Umano, alcune brevi note si trovano alla fine.

Così mi sono deciso a presentare, in queste pagine, alcuni aspetti di questo ostacolo ad una buona vita, solitamente chiamato attacco di panico, crisi di panico, aspetti, per così dire, strutturali, che ciascuno incontra in questi casi, fermo restando che le forme specifiche, per ciascuno, sono originali, imprevedibili, uniche e non ripetibili, poiché dipendono dalla unicità di ciascuno di noi, dalla unicità del patrimonio genetico di ciascuno, dalle storie di ciascuno.

Insomma, la conoscenza degli aspetti strutturali è una parte del “rimedio”, insufficiente, da sola, a rimuovere l’ostacolo: l’altra parte è il frutto di una elaborazione che è possibile sviluppare solo con una guida esperta.

Perché elogiare il panico? Poiché esso è uno dei tanti doni, salvifici, che abbiamo ricevuto alla nascita.

Cominciamo dalla paura

Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso. Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò.” Herbert, Frank P.. Dune (Fanucci Narrativa) (Italian Edition) . Fanucci. Edizione del Kindle.

Era il 1965, alcuni avranno riconosciuto la litania contro la paura del Bene Gesserit, formidabile invenzione di Frank Herbert… ma anche senza sapere nulla di questa opera monumentale, la litania è abbastanza suggestiva, la usiamo per iniziare ad avere a che fare con qualcosa che conosciamo tutti, che ogni giorno si presenta a noi, nei suoi vari gradi di intensità.

Che cosa sia la paura lo sappiamo tutti, almeno nel senso di averla provata, sentita, sperimentata, come la fame, il sonno, la sete, non sono poi tanti, tra noi, quelli che, per così dire dispongono di idee, almeno, se non di conoscenze più sofisticate, meno ancora coloro che hanno condotto studi e ricerche di valore e carattere più o meno scientifico.

Me ne sono occupato, per me bastevolmente, per alcuni anni, tempo fa, a quel tempo ero interessato ai possibili sviluppi della emotica, neologismo che tentava di indicare una disciplina, un campo di studio e ricerca a carattere pratico, da cui trarre concreti vantaggi per la conduzione della nostra vita: emozione e tecnica, tekné, sapere come avere a che fare con le emozioni ed i codici emotivi di base.

Almeno una idea di che cosa fossero le emozioni bisognava pur averla, partire dalle radici etimologiche della parola “emozione” era un inizio come un altro: parere condiviso da chi ci ha studiato sopra, è che la radice sia latina, da e-moveo, sinteticamente sradicare, scuotere, smuovere, svellere, la e premessa al moveo (muovere) indica, in quella lingua,  il muovere da, il tirare via da…

I nomi sono di grande utilità, le parole sono di grande utilità, basta non dimenticarsi, e non sottovalutare il fatto, che segnalano, indicano interazioni: sono le interazioni, i modi di collegarsi degli elementi con cui abbiamo a che fare, indicati dal nome, dalla parola, ad essere per noi di interesse.

Emozione è un nome, è una parola, che indica che tra gli elementi che costituiscono l’ambiente con cui abbiamo a che fare, ambiente reale e ambiente virtuale, sta succedendo che qualcosa viene smosso, scardinato, scosso, in qualche modo “portato via” da dove e come si trovava.

Un bel guaio. Uno si trova lì, a fare le sue cose come sempre, e zac!, ti arriva l’emozione e ti porta via, ti svelle, ti scuote, ti scardina… ma è il modo!, dico io. Meglio sarebbe se non ci fosse, se non succedesse, e poter procedere, ragionevolmente, ordinatamente, sensatamente, per quanto possibile, nel cammino della vita.

A ben guardare, collocare le emozioni (inclusa la paura) tra i “disturbi”, le interferenze del comune e ordinato vivere e agire risulta un tantino limitante, e, ad una migliore osservazione ed analisi, alla fine, una gravissima distorsione: se è vero che il prodursi di una emozione, una qualsiasi, scardina, smuove, svelle, e questo è impossibile negarlo, è anche vero che ciò ha un senso, lo aveva milioni di anni fa, quando il nostro organismo si ritrovò dotato di un sistema emotivo e di codici emotivi, e ce l’ha anche oggi.

Non si tratta tanto di rassegnarsi ad essere, di tanto in tanto, speriamo il meno possibile, scossi e scardinati, inevitabile come il respirare, quanto di sapere e riconoscere quanti e quali benefici sono portati, prodotti, generati dalle emozioni, dalle nostre capacità di “provare” emozioni.

Le rintracciamo infatti sul piano del “sentire”, delle sensazioni, a cui poi diamo un nome… ma ciò che ci permette di dare un nome a quelle particolari configurazioni di sensazioni è un altro dei nostri sistemi, non il sistema emotivo, non l’emozione: le sensazioni distintive di quella emozione, o dell’altra, esistono indipendentemente dal pensiero, ci accadono anche se non avessimo parole condivise per indicarle.

Sì, le emozioni ci accadono, ci arrivano, provenendo da qualche parte, che ora, grazie agli studi ed alle ricerche condotti per decenni, più o meno sappiamo da dove, e più o meno siamo capaci di descrivere il meccanismo neurofisiologico distintivo di ciascuna emozione, ricorrendo ai neuroni, ai neurotrasmettitori, agli ormoni, al sistema nervoso centrale: le neuroscienze, i neuroscienziati,  hanno prodotto tantissima roba, nei limiti delle conoscenze e della affidabilità degli strumenti di osservazione, i riscontri sono di grande interesse.

Anche se è probabile che, una volta completata la teoria del tutto, dove finalmente gravità e quantistica potranno essere felicemente riunite, tali conoscenze neuroscientifiche dovranno essere completamente riformulate… ma fino ad allora dovremo contentarci di quel che c’è, e cercare di cavarcela con quello.

Nessuno di noi può dire di volere che gli accada, che gli arrivi questa o quella emozione, non nel senso che l’emozione che prova sia effetto di un atto di volizione diretto, del tipo: voglio provare gioia!, non più di quanto possiamo “comandarci” di avere fame, o sete, o sonno.

Ma ciascuno di noi può fare molto per ottenere che gli succeda che quella emozione arrivi, può darsi da fare per ottenere, per realizzare specifiche configurazioni di ambienti, reali e virtuali, e quindi, nel momento in cui tali configurazioni si producono, anche per nostro intenzionale e sapiente agire, allora, e solo allora, l’emozione cercata, voluta, desiderata, può prodursi.

In questi giorni è un caldo torrido, mi sono messo a scrivere, il termometro alle otto del mattino registra qui una temperatura di 30° Celsius, 86° Fahrenheit,  e non tira un’alito di vento, mi sento a disagio, mi dà fastidio il calore dell’aria che aspiro dal naso, il sudore che incomincia a colare, non che possa dire di sentirmi infelice, ma un po’ sì…

e poi mi rassegno ad azionare il climatizzatore, non vorrei farlo, sono consapevole dell’impatto che ha sull’ambiente il far funzionare il mio pur modesto apparato refrigerante, già siamo in guai seri, peggiorarli non è proprio una buona idea, per non parlare dell’impatto sulla bolletta della luce, che questo mese sarà astronomica, ma non mi riesce più di neanche quasi di pensare, il fastidio è davvero molto intenso.

In pochi minuti la temperatura scende a 27, poi a 26° Celsius, circa 78° Farheneit, si è sensibilmente abbassato il tasso di umidità relativa, avverto una generale sensazione di benessere, aria fresca, abbastanza fresca, nel naso… non che possa dirmi felice, ma un po’ sì, almeno per un po’, di solito mi succede che la felicità, più o meno piccola, che sono riuscito a procurarmi, in qualche modo, duri poco.

Che cosa sia l’emozione, la paura, la felicità, e le altre decine, centinaia di emozioni, dopo rigorosa osservazione, studio, metodica analisi e profonda riflessione, beh, ridotta la cosa all’osso, per noi umani, e per le specie dotate di un sistema emotivo (moltissime, per inciso), è un “marcatore”.

È il risultato di un processo estremamente complesso, a quanto pare svolto incessantemente dal nostro sistema limbico, che, ad ogni configurazione di ambiente reale o virtuale con abbiamo a che fare, accoppia stabilmente una o più configurazioni degli altri nostri sistemi (vascolare, motorio, linfatico, neurale, proficettivo, nocicettivo… ce ne sono parecchi), preparando il nostro intero organismo alla azione, a dispiegare la migliore azione che in quel momento possiamo svolgere, azione prevalentemente sostenuta, guidata, controllata dai nostri codici, neurogrammi, istruzioni scritte nel linguaggio del codice neurale, la migliore azione per governare la nostra interazione con la configurazione di ambiente, reale o virtuale, con cui stiamo avendo a che fare.

Migliore in che senso? Migliore per noi, che vuol dire, basicamente, quella che avrà successo nell’ottenere e stabilizzare configurazioni di ambienti reali e virtuali favorevoli, di supporto alla nostra sopravvivenza… sopravvivenza qui vuol dire tutto ciò che secondo noi ci serve per vivere il meglio possibile, dal cibo all’abito all’ultima moda.

L’emozione è, per noi, il marcatore che prepara il nostro organismo ad eseguire l’azione per noi salvifica, non è una reazione, anche se la potremmo superficialmente chiamare così, è uno degli elementi che per noi costituiscono questa o quella configurazione di ambiente, una condizione straordinaria, che ci permette di fluire-con, di danzare e cambiare mentre fluiscono e si trasfondono, gli uni negli altri, i mutamenti delle configurazioni di ambiente con cui abbiamo a che fare.

Il vantaggio competitivo per la nostra specie è formidabile, quello che potremmo chiamare “tempo di reazione” risulta, nella nostra percezione, sostanzialmente azzerato, non siamo in grado di percepire distintamente e consapevolmente fenomeni che si producono in un tempo inferiore al decimo di secondo, il tempo di elicitazione della “risposta” emotiva si colloca nell’ordine di alcuni millisecondi: utilissimo per evitare gli effetti dell’assalto di predatori, umani e no, o per predare specie più “lente” di noi.

Piacere e dispiacere, c’entrano qualcosa?

Sì, molto. A ciascuno nostra emozione è correlato un segnale specifico, segnale che per noi fa parte dell’emozione, almeno nel nostro sentire comune, distinguiamo con grande facilità emozioni piacevoli ed emozioni spiacevoli… il termine spiacevole è bene che sia subito riconosciuto nella sua sostanza e ricondotto alla sua fonte, al dolore, in tutti i gradi di intensità che ciascuno di noi ha sperimentato.

I segnali di piacere e dolore sono il frutto del lavoro di due distinti sistemi, elementi del nostro organismo, il sistema nocicettivo ed il sistema proficettivo, sistemi che plausibilmente hanno preceduto, nella storia della nostra evoluzione, la comparsa del sistema emotivo: pur essendo assai complessi e sofisticati, sono tuttavia meno complessi del sistema emotivo, e assolvono fondamentalmente il compito di rispondere a due “domande” base che noi teniamo costantemente aperte mentre abbiamo a che fare con ciò con cui abbiamo a che fare.

Le due domande aperte, cui è bene saper rispondere rapidamente ed in modo appropriato, riguardano il nostro “dove”, più o meno: per la nostra sopravvivenza, è bene restare dove siamo o è meglio muoverci e trovare un altro dove? A questa domanda risponde il sistema nocicettivo, il segnale doloroso è la marcatura di una configurazione di ambiente, reale o virtuale, minaccioso per la nostra sopravvivenza, la risposta, semplice, chiara, immediata, diretta è: non-qui, via-da-qui

Per la nostra sopravvivenza, in che direzione è bene andare? A questa domanda risponde il sistema proficettivo, il segnale del piacere marca, tra tutte le possibili opzioni, quelle più favorevoli alla nostra sopravvivenza, inclusa quella del restare dove ci si trova.

L’emozione che chiamiamo paura, e, quando molto intensa, panico, è sentita come spiacevole, è correlata al dolore, innesca fulminee modificazioni del nostro organismo, preparandolo ad azioni di fuga, o di attacco che potranno dover essere eseguite per allontanare o distruggere ciò che minaccia la nostra sopravvivenza.

Insomma, tenta di salvarci la pelle.

Come potremmo non essere ben contenti di disporre di una simile protezione? Se non lo siamo, beh, dovremmo esserlo, senza questa emozione saremmo molto più lenti, forse incapaci di sottrarci a ciò che minaccia la nostra vita, il nostro organismo ne risulterebbe notevolmente svantaggiato.

Ma… c’è un ma, penso più di uno.

Ciò che ciascuno di noi ha sperimentato è che questa emozione a volte ci accade quando non è per niente utile a raggiungere i nostri scopi, nessuno di noi può sentirsi contento di trovarsi bloccato durante una presentazione, quasi svenire mentre esce dal hotel, incapace di uscire di casa, svegliarsi di notte, ripetutamente, con il cuore in gola e la testa che martella, bloccato quando può finalmente proporre ai suoi capi una soluzione a cui ha lungamente lavorato…

Eppure, se sentiamo dolore, inevitabile quando ci accade di provare l’emozione della paura, c’è una buona ragione, anche se non la vediamo subito, anche se non siamo capaci di individuarla: di questo possiamo essere assolutamente certi, quando sentiamo dispiacere, dolore, da qualche parte c’è qualcosa che minaccia la nostra sopravvivenza.

Prima di incamminarci alla ricerca dei rimedi e delle soluzioni, è bene sapere e ricordare alcune cose, della nostra storia e della storia della nostra specie.

La prima, e forse più importante, riguarda il tempo, quando, nella nostra storia evolutiva, il sistema emotivo e le emozioni sono entrate a far parte del patrimonio del nostro DNA: anche se non ne abbiamo prove certe, una ricerca di questo tipo non è ancora stata compiuta, tuttavia, almeno per quanto riguarda noi umani, questa proprietà del nostro sistema biologico dovrebbe essere comparsa come tratto ereditario almeno cento milioni di anni fa, anno più anno meno.

Cento milioni di anni fa era sicuramente un vantaggio competitivo considerevole, dal punto di vista della sopravvivenza del singolo e della specie, rispetto alle configurazioni di ambiente di quel tempo, rispetto alla configurazione del habitat, come si dice, in cui i progenitori della nostra specie, già dotati di pollice opponibile, cercavano di sopravvivere.

Il sistema emotivo permetteva di disporre di risposte migliori ai problemi di quel tempo, risposte migliori rispetto agli organismi non dotati di un sistema emotivo: di quali problemi si trattava? Anche se non possiamo saperlo con certezza, possiamo tuttavia farcene un’idea osservando magari come riescono oggi a sopravvivere e a riprodursi i lemuri.

Ma anche non sapendo che razza di vita conducevano i nostri progenitori cento milioni di anni, due cose le sappiamo: la prima è che il loro habitat era totalmente diverso del habitat di oggi, dalle configurazioni che gli ambienti odierni, in cui vivono quasi otto miliardi di esseri umani, presentano a ciascuno di noi.

La seconda è che, tra le diversità più straordinarie che possiamo individuare, troviamo quella che riguarda il nostro avere a che fare, in ogni istante della nostra vita, con ambienti a cui i nostri progenitori non potevano in alcun modo accedere, poiché, per loro, non esistevano.

La nostra specie, ramo evolutivo della specie dei primati, comparsa sul pianeta circa cento milioni di anni fa, non ha soltanto profondamente modificato l’ambiente reale, nel giro di poche migliaia di anni, nulla rispetto ai tempi della nostra evoluzione di esseri viventi: un lemure potrebbe magari cavarsela nell’avere a che fare con la giungla di una città, anche se enormemente diversa dalla giungla tropicale.

Ma non ha alcuna possibilità di cavarsela nell’avere a che fare con gli ambienti con cui ciascuno di noi ha a che fare in ogni istante della sua vita: ciò che per noi indubitabilmente esiste e che richiede un sacco di lavoro, e che per un lemure non esiste, sono i nostri straordinari ambienti virtuali, quelli che ciascuno trova dentro la propria scatola cranica.

Il sistema emotivo è un dono prezioso, una dotazione preziosa, anche per noi, naturalmente, quando abbiamo a che fare con gli ambienti reali: non è bene, per noi, ricorrere a questa dotazione come facevano i nostri progenitori, le cose sono molto diverse per noi, ci serve impiegarla in modo selettivo.

Ed è una dotazione preziosa anche nell’avere a che fare con i nostri ambienti virtuali, anche in questo caso è bene per noi, cioè è di supporto ed aiuto alla nostra sopravvivenza, ricorrere a questo tesoro in modo ancor più selettivo e sapiente.

Insomma, sono istruzioni per sopravvivere, codici che aiutano a sopravvivere, tratti genetici vincenti rispetto al tempo ed agli ambienti in cui eravamo tanto tanto tempo fa: ora vanno adattati, per permetterci di ottenere ciò che oggi può aiutarci a sopravvivere.

Un’altra cosa da ricordare è che di questa eredità non possiamo sbarazzarci, in nessun caso, non senza compromettere gravemente il nostro pur possibile buon funzionamento: possiamo solamente tentare di “gestire” questa eredità.

Ambiente reale e ambiente virtuale - allineamento

Che cosa sia l’ambiente reale lo sappiamo tutti, è quel là-fuori in cui si trova anche il nostro corpo, che cosa sia un ambiente virtuale, per noi sistemici, è l’ambiente con cui hanno a che fare un paio di nostri sistemi, quelli che “producono” il pensiero: entrambi, ambiente virtuale e sistemi di pensiero sono reali quanto reale è l’ambiente reale, proprietà emergenti del nostro stupefacente sistema neurale, e come tali necessariamente e irrimediabilmente collocati dentro il nostro organismo, inaccessibili a chiunque sia là-fuori.

Usiamo il nostro multiforme, quasi infinito ambiente virtuale per individuare e mettere a punto le migliori azioni possibili, per scegliere o scrivere i codici migliori che riusciamo a scrivere in ogni momento e poi spedirli al sistema motorio, così che l’azione guidata, controllata, abbia il maggior successo possibile per noi… successo vuol dire riuscire a sopravvivere, naturalmente.

Non è una metafora, siamo splendide, incredibili, meravigliose macchine biologiche, enormemente complesse, le azioni che ci permettono di sopravvivere sono guidate dai nostri codici, anche quando cerchiamo di utilizzare combinazioni casuali, noto come procedere per tentativi ed errori.

Un laboratorio quasi infinito, dove fare esperimenti e tentare di prevedere gli effetti, un parco divertimenti per intrattenerci, sfere di cristallo per indovinare, tentare di indovinare il futuro, un “archivio” pazzesco della nostra storia (sulla memoria dovremo tornare, a suo tempo, i ricordi non sono fotografie conservate negli album), insomma una proprietà della nostra macchina biologica che costituisce un enorme vantaggio competitivo rispetto a tutte le altre specie viventi.

Come dispositivo di sopravvivenza, poiché tale è, è soggetto ad un monitoraggio continuo, è vitale per noi poter essere relativamente sicuri che sta funzionando adeguatamente, lo possiamo usare con enorme flessibilità a condizione di tornare frequentemente a verificare che il nostro ambiente virtuale sia allineato, sufficientemente simile, alla configurazione dell’ambiente reale con cui abbiamo a che fare, momento per momento.

Quando “i mondi” si trovano disallineati, il nostro sistema di allarme, proprio il sistema nocicettivo, scatta, generando un segnale, generalmente, di intensità proporzionale alla gravità della minaccia rilevata, simultaneamente all’emozione “cablata”, alla marcatura emotiva correlata alla configurazione del disallineamento, una delle tante varianti della paura, e resta “acceso” fino a quando non risolviamo, in qualche modo, il disallineamento.

Che il disallineamento dei mondi sia interpretato dai nostri sistemi come una minaccia, più o meno grave, è assai ragionevole: o là-fuori si trova una minaccia da neutralizzare, ed è il caso di darsi da fare, oppure là-fuori non c’è niente di minaccioso, il che sta ad indicare che qualcosa dei nostri sistemi non sta funzionando come dovrebbe, non stiamo funzionando come dovremmo funzionare, e questo ci mette in pericolo, di nuovo, è il caso di darsi da fare.

Ci sono voluti milioni di anni per mettere a punto questo dispositivo di sopravvivenza, ed abbiamo la prova che ha funzionato con un certo successo, visto dove siamo arrivati rispetto alle altre specie viventi, possiamo fidarcene… e infatti ce ne fidiamo enormemente, essendo anche riusciti, nel corso delle nostre vite, a modularne un poco il funzionamento, a guidarlo, adattandolo a “tenere d’occhio” con maggiore efficacia alcuni disallineamenti, modulando diversamente, qua e là, dove opportuno, l’intensità del segnale di allarme, l’intensità del dolore.

Così riusciamo tutti, o quasi, ad andare in bicicletta, e a fare un sacco di cose pericolosissime ogni giorno.

Allineare i mondi e ottenere continue conferme di buon funzionamento è un “bisogno” primario, una necessità imprescindibile della nostra macchina biologica, come respirare, mangiare, bere… meglio non sottovalutarne il peso, nell’avere a che fare con gli altri e con noi stessi.

I disallineamenti, per ciascuno di noi, sono eventi quotidiani, ciascuno marcato da un grado diverso di “spiacevolezza”, in genere correlato al livello di minacciosità della configurazione di ambiente, reale e virtuale, con cui abbiamo a che fare: dal piccolo fastidio, correlato al dover rispondere alla chiamata di quel rompiscatole, alla ben più intensa preoccupazione correlata alle prove inconfutabili che i nostri affari, il nostro lavoro, non stanno andando affatto bene, alla ancora più intensa agitazione correlata all’aver appreso che una persona a noi molto cara potrebbe morire da un momento all’altro, l’elenco potrebbe continuare, pressoché infinito.

Rispetto a questi disallineamenti siamo capaci, più o meno, di averci a che fare, sappiamo che è del tutto possibile, e magari ci è anche successo, che le configurazioni di ambiente con cui abbiamo a che fare siano ancora più, molto ma molto più gravi e minacciose di quelle che abbiamo sommariamente indicato. Dire che la genetica, il nostro codice genetico, ci ha preparato ad eventi prossimi alla catastrofe può sembrare esagerato, ma non siamo lontani dal vero: il movimento scomposto che si produce immediatamente quando sentiamo di cadere, è solo apparentemente scomposto, in verità è il miglior tentativo possibile di trovare qualcosa cui aggrapparsi, e certamente questo non lo abbiamo appreso, li chiamiamo riflessi.

E scopriamo che questi riflessi, almeno molti di loro, possono essere parzialmente modificati: non ha paura di cadere, o almeno non tanta, e non mostra affatto movimenti scomposti chi pur si lancia nel vuoto, da una piattaforma a dieci metri di altezza dal pelo dell’acqua, ed esegue un 5337D, e cioè un salto mortale e mezzo rovesciato con tre avvitamenti e mezzo, in posizione libera.

L’evento catastrofico, per qualunque vivente, è uno solo, esattamente quello che corrisponde, per ciascuno, alla cessazione totale della propria integrità sistemica, insomma alla cessazione della propria vita: qualunque evento, per prodursi, richiede tempo, un tempo più o meno breve, più o meno lungo, la cessazione della nostra esistenza coincide con l’istante in cui termina un processo, che può essere durato anche meno di un secondo, oppure molto, molto di più, ore, giorni, mesi, anni.

E non è affatto strano che, nella nostra vita quotidiana, in generale non proviamo paura, né tantomeno panico, davanti alla evidenza che la nostra esistenza, la nostra vita, inevitabilmente, cesserà: il nostro meraviglioso sistema emotivo agisce nel presente, funziona nel presente, non c’è passato, non c’è futuro, il tempo, per il nostro sistema emotivo, non esiste, c’è solo il qui e ora, ed è tantissimo.

È la fine: il panico ci salva… o almeno ci prova

Palpitazioni, senso di respirare male o soffocare, giramenti di testa, costrizione toracica, nausea, dolori addominali, bisogno di urinare spesso, diarrea, tremori, sensazione di sbandare, vertigini, parestesie… questi sono i “sintomi”, i segnali che molti, specialisti e non-specialisti, hanno osservato manifestarsi negli attacchi di panico, nel mio piccolo, nella mia limitata esperienza ed osservazione diretta, posso confermare buona parte di queste manifestazioni distintive.

Come è possibile sostenere che questa condotta, correlata a quella sconvolgente emozione che chiamiamo panico, sia utile a qualche cosa?

Sì, lo ammetto, non è proprio intuitivo, ci vuole qualche passo e qualche conoscenza in più, per poter rispondere, e per arrivare alla conclusione che il panico, manifestazione parossistica della paura, sostiene l’innesco e l’esecuzione istantanea di azioni salvifiche.

Per cercare di comprendere il senso vitale, salvifico, del panico, bisogna che riusciamo ad immedesimarci, in qualche modo, nella condizione in cui siamo organismi complessi sì, ma primitivi, privi di pensiero, meno che scimmie, e stiamo subendo un attacco totale, su tutti i fronti, dall’interno del nostro corpo e dall’esterno del nostro corpo.

La fine della nostra vita si sta avvicinando rapidamente, ed è possibile che ciò stia avvenendo in relazione a qualcosa che si trova dentro al nostro corpo: in questo caso, una delle prime cose che possono salvarci la vita è espellere, buttare fuori tutto ciò che ci è possibile buttare fuori… a ciascuno il compito di trovare, nell’elenco dei sintomi, quelli corrispondenti al salvifico tentativo di buttare fuori ciò che forse ci sta uccidendo.

È anche possibile che l’attacco alla nostra vita venga da fuori, ma evidentemente non siamo riusciti e non riusciamo a sottrarci, se fosse stato o fosse possibile ce la daremmo a gambe, avremmo cercato di neutralizzare la minaccia, e ci troveremmo impegnati in tutt’altro tipo di azione: no, in questo istante non riusciamo a individuare nessuna via di fuga, in nessuna direzione. Che fare? Contrarre tutta la muscolatura striata aumenta la possibilità di resistere ai colpi, agli urti, ne attenua almeno il danno ad altre parti del nostro prezioso corpo… di nuovo, a ciascuno il compito trovare, nell’elenco dei sintomi, quelli corrispondenti al salvifico tentativo di essere pronti a ricevere e resistere ai colpi di ciò che forse ci sta uccidendo.

Non va trascurato l’altro salvifico effetto dell’attivare la muscolatura striata, nel caso si aprisse una qualunque via di fuga.

Infine, variante specifica del tipo di attacchi che provengono dall’esterno del nostro corpo, potrebbe trattarsi di un predatore: essendo escluse le vie di fuga, ed essendo inefficace il “contrattacco”,  resta l’ultima azione possibile, l’immobilità: i sistemi sensoriali di molti predatori hanno a che fare con la detezione del movimento, altri predatori non si cibano di corpi morti, immobilizzarsi è pur sempre fare qualcosa… di nuovo, a ciascuno il compito trovare, nell’elenco dei sintomi, quelli corrispondenti al salvifico tentativo di ricorrere alla immobilità.

Se la guardiamo in questo modo, non possiamo negare l’evidente ricchezza di questo dono genetico, e immaginare quante volte questo dispositivo sistemico abbia salvato la pelle dei nostri progenitori… e nemmeno possiamo evitare di constatare, una volta di più, che “sfortunatamente”, questo antichissimo salvavita, adattissimo alle condizioni di decine di milioni di anni fa, oggi ci è assai più di ostacolo che di aiuto.

Il panico da panico

Ancora ricorrendo alle osservazioni di tanti, specialisti e non-specialisti, e anche alla mia modesta diretta conoscenza di questi accadimenti, un altro fenomeno si mostra molto frequentemente correlato: il manager, cui facevo cenno nella introduzione, descrisse più volte, con grande precisione e ricchezza di particolari, il suo pressoché continuo “tenere d’occhio” gli indizi, i cenni che potevano essere collegati al riprodursi dello spiacevole “blocco”, riconoscendo il suo consapevole timore che la cosa potesse ripetersi ancora.

E ogni volta che la cosa si ripeteva, rendeva ancora più intensa la ricerca degli indizi e più forte il timore, diventando man mano sempre più evidenti i danni al suo lavoro, alla sua carriera, ancora più insormontabili gli ostacoli alla realizzazione dei suoi progetti e dei suoi desideri.

Anche per questo manager, rischiavano di innescarsi ed essere adottati quelli che generalmente vengono chiamati comportamenti di evitamento, insomma fuggire, stare alla larga, dalle condizioni in cui si era trovato a “subire” un attacco di panico la prima volta.

Cosa non facile per il nostro manager, dato che era, ed è, parte importante di un prestigioso e ben remunerato lavoro, a cui si era dedicato anche sostenuto da un indubbio “talento naturale”, facendolo con soddisfazione, con piacere e con eccellenti risultati… ma questa è un’altra storia.

Da ciò che abbiamo elaborato prima, ora possiamo accogliere che la definizione “attacco di panico” è totalmente fuorviante: il panico è il “rimedio”, tutt’al più, non certo la sorgente della minaccia alla nostra vita.

E anche l’ “attacco di panico da panico” è fuorviante, non è, di nuovo, il panico a costituirsi come minaccia, ma l’insieme delle azioni che il panico si limita ad innescare e ad accompagnare, azioni che milioni di anni fa salvavano la vita, e che oggi hanno invece anche, molto spesso,  un effetto rovinoso sull’efficace governo della nostra interazione con ciò con cui abbiamo a che fare: l’emozione non è l’azione dispiegata e poi compiuta, ne è solo il pre-innesco, un acceleratore della possibile esecuzione della azione.

Ai cosiddetti “comportamenti di evitamento” viene attribuita, generalmente, una connotazione negativa, chi adotta tali soluzioni non riceve, socialmente, testimonianze di apprezzamento, ma, più o meno apertamente, biasimo, disprezzo: questa è una pista interessante, che non seguiremo sul versante “sociale”, non qui e non ora, ma solo sul versante degli effetti che questo ha sul malcapitato, o malcapitata, a cui è toccato in sorte di trovarsi attaccato, attaccata, da tutte le parti.

Chi di noi, potendolo fare, non si sottrarrebbe immediatamente ad un attacco totale? Chi di noi non starebbe alla larga dai luoghi in cui, e dalle condizioni sotto cui, diventerebbe oggetto di un attacco totale e devastante?

Lo facciamo tutti, costantemente, e per ottime ragioni, le stesse che fondano la saggia scelta del cosiddetto “comportamento di evitamento”: altro paio di maniche sono i costi, le privazioni, le energie che vengono necessariamente assorbite per stare alla larga dai guai, voci presenti nel bilancio quotidiano di ogni vivente.

Innegabile il dispiacere, intrecciato con tristezza, rabbia, umiliazione, disperazione e altre emozioni, che accompagna il trovarsi incapaci di eseguire compiti relativamente semplici, non certo il 5337D, che pur vediamo eseguire dai nostri simili, e che magari, spesso, anche noi, fino a poco tempo fa, eravamo perfettamente in grado di eseguire: la ricerca e l’ottenimento di prove quotidiane di buon funzionamento non si arresta, e le limitazioni correlate ai comportamenti di evitamento vengono inevitabilmente cifrate come parte delle prove che c’è qualcosa che non va, anche se non si riesce a capire che cosa, anche se non sappiamo perché, pur cercando e sforzandoci continuiamo ad ottenere il riscontro che la “cosa” continua a succederci, e che, per il momento, l’unico rimedio veramente efficace consiste nello stare alla larga.

Stare alla larga che è, e per ottime ragioni, nascondere a noi e ad altri, più che si può, fin che si può, quella che a buon diritto classifichiamo come una menomazione, un deficit, e, non di rado, apparentemente paradossale, una colpa: dovremo riprendere la questione, tra poco.

Improvvisamente…

La prima volta è una totale sorpresa, un fulmine a ciel sereno, totalmente inaspettato e senza motivo; e dopo, a “crisi” superata, risulta impossibile comprenderne il senso, trovare la ragione, le possibili ragioni, la “cosa” resta lì, misteriosa, e, scopriamo nel tempo, invincibile, indomabile, incontrollabile, non possiamo farci niente.

Già sono estremamente spiacevoli le sensazioni che proviamo durante l’attacco di panico, a questo si aggiunge, in seguito, tutto il resto, e resta immodificata per noi l’evidenza di ciò che ci è accaduto, senza motivo, senza ragione: naturalmente così non è, anche se non è semplice e immediato trovare che cosa ci ha portati a quella condizione infernale.

Il dolore, il dispiacere, non mente mai: questo “improvvisamente”, immancabilmente, si scopre che viene da lontano, che è in marcia da tempo, naturalmente esclusi i casi di avvelenamento di cibo, aria, e attacco di predatori non contrastabili, casi che a me non è stato possibile osservare, e che, sinceramente, non rivestono per me rilevante interesse.

Tale è la varietà di “ciò che è in marcia da tempo” per ciascuno, da indurmi a lasciar perdere ogni tentativo di classificazione o raggruppamento: invariabilmente, si tratta di ragioni strettamente correlate alla storia puntuale, unica e irripetibile, di ciascuno, anche se sono riconoscibili radici comuni, ad esempio l’abbandono, o (o inclusiva) l’attacco al rango conquistato, o l’impedimento al naturale sviluppo, o lo scacco di una parte rilevante dei codici che costituiscono la “casa interna” (qui la cosa diventa complicata da spiegare in una riga, devo rimandare), in tutte le loro molteplici forme, e sono davvero molte, e per ciascuno si presentano in configurazioni originali e non ripetibili … radici che si presentano a volte come “solitarie”, a volte in compagnia di altre, in combinazioni di diversa e sempre unica configurazione.

Vicende, accadimenti che frequentemente si snodano “lontano”, apparentemente, nello spazio e nel tempo, dal quadro in cui poi si produce l’attacco di panico, su cui si innestano i rimedi più facilmente accessibili, panico da panico e comportamenti di evitamento… ah sì, certo, il panico da panico è un rimedio, primitivo e non del tutto adeguato ad una buona qualità di vita, è una delle tante soluzioni pronte all’uso.

Collegare quelle vicende, trovare i collegamenti tra quegli accadimenti e ciò che molto dopo succede “improvvisamente”, è ciò che non è risultato possibile, da questo proviene la sorprendente caratteristica dell’ “improvvisamente”, stabilmente correlata, nel racconto di chi lo ha subito, al prodursi dell’attacco di panico.

La semplice verità è che non siamo preparati a riconoscere la natura ed il senso di ciò che ci accade in modo sufficientemente accurato, registriamo le nostre “reazioni” alle forme dell’abbandono, dell’attacco al rango, del blocco del nostro sviluppo, cerchiamo di rimediare come meglio possiamo, senza sapere bene che cosa sono, senza conoscerne le ragioni, accettando come ovvio e naturale, scontato, che sia così e che debba necessariamente essere come è.

E, “improvvisamente”, cercando di eseguire il 5337D, senza saperne molto del 5337D, prendiamo una panciata terrificante: non si muore per questo, ma è molto probabile che al prossimo tuffo, continuando a non saperne molto, riprendiamo un’altra panciata, e che poi cerchiamo di stare alla larga dalla piattaforma.

Da ospite inatteso a vecchia conoscenza

Sgradito comunque, ma molto meno difficile averci a che fare: vecchia conoscenza non nel senso che ci è successo più e più volte, ma nel senso che ci troviamo nella condizione di sapere che cosa è e da dove viene.

Il giovane manager, John,  ha davanti a sé una buona carriera, ottime prospettive, dannazione, gli si blocca la presentazione; la giovane professionista, Rebecca, conquistata la laurea, conquistato un prestigioso incarico in una grande azienda, sana, bella, intelligente, conquista anche la sua casa, dove sarà molto più libera di quanto sia nella casa dei pur liberalissimi genitori, ma si sa, no?, mica vero che nella nuova e bellissima sua casa le vengono gli attacchi? E deve tornare a casa da mamma e papà?; la solida professionista, Catherine, che è riuscita a sbarazzarsi di un socio molto ingombrante, e a cavare da guai seri la giovane figlia, che ha viaggiato per l’Europa in lungo e in largo, perbacco, non riesce più ad allontanarsi per più di venti chilometri da casa, quando ci prova trova lì ad aspettarla il panico… e deve tornare indietro, o avere un accompagnatore… che seccatura; la giovane impiegata, Elise, di ottime capacità, assai graziosa, di vivace intelligenza e grande sensibilità, pluricorteggiata,  va letteralmente fuori di testa (leggi: difficoltà respiratoria, vertigini, svenimenti, pianto inconsolabile, nausea incontenibile) quando la sua capa la minaccia di non assegnarle incarichi, o quando il fidanzato non la invita ad accompagnarlo ad una festa, o a unirsi alla compagnia dei suoi (di lui) amici per una grigliata…

Come dicevamo, i quadri entro cui arriva il cosiddetto “ospite inatteso” sono tantissimi, e tutti diversi l’uno dall’altro, il che può perfino sembrare incredibile, a noi sistemici non tanto incredibile, per la verità, avendo continuo riscontro ed evidenza delle costanti diversità dei neurogrammi, delle “istruzioni macchina” di ciascuno: sì, vediamo anche che le radici sono comuni, come sistemi viventi siamo simili, i nostri sistemi sono assai simili, i codici di base sono simili.

Ma abbiamo imparato che è inutile cercare di “spiegare” il fiore studiando la sola radice, trascurando la sua unica e specifica storia.

“A tutt’oggi non abbiamo ancora sviluppato una teoria completa e consistente che combini la meccanica quantistica e la gravità; tuttavia, conosciamo ormai con sufficiente certezza almeno alcuni dei caratteri che una tale teoria unificata dovrebbe avere. Uno è che dovrebbe incorporare la proposta di Feynman di formulare la teoria quantistica nei termini di una somma sulle storie.

Stando a questo approccio, una particella in movimento da A verso B non ha solo una singola storia, come in una teoria classica, ma deve invece seguire ogni possibile traiettoria nello spazio-tempo. A ciascuna di queste storie è poi associata una coppia di numeri, uno dei quali rappresenta le dimensioni di un’onda e l’altro la sua posizione nel ciclo, ossia la sua fase.

Per calcolare la probabilità che la particella, diciamo, passi per un determinato punto, dobbiamo sommare le onde associate a ogni possibile storia che passi per quel punto. Quando però proviamo a calcolare effettivamente il valore di queste somme, veniamo a imbatterci in una serie di gravi difficoltà di carattere tecnico, e l’unico modo per aggirarle consiste nel seguire questa peculiare prescrizione: si devono sommare le onde per storie di particelle che non si trovano nel tempo reale di cui facciamo esperienza, ma che hanno luogo in un tempo immaginario”.[i]

Alla maggior parte di noi, questi passi dovrebbero suonare poco meno che pazzeschi, se non fosse che quando si tratta di quantistica e gravità, ci andiamo cauti a sparare giudizi, se poi l’autore dei passi è Hawking, beh, meglio andarci molto piano, si rischia di fare la figura di asini ignoranti.

Di quantistica io non ne so nulla, ma proprio nulla, leggo contributi di altri attraverso cui cerco di capire che cosa diavolo riescono a vedere usando queste visioni (per me sono visionari, e quindi il termine visioni è appropriato), e mi porto via quel che mi sembra mi possa servire.

Che un brillante fisico quantistico, così almeno è ritenuto Feynmann, proponga di utilizzare, per predire il movimento di una particella da A a B, la somme delle storie della particella stessa, a me suona formidabile, per me ora non ha alcuna importanza come diavolo ci riescano (e pare proprio che ci riescano), è formidabile il solo averlo pensato.

Per noi sistemici, le “storie”che hanno valore, e che permettono di ipotizzare operazioni di aiuto, magari non proprio di somma nel tempo immaginario, qualunque cosa questo voglia dire, non sono tanto le storie degli accadimenti, le cronache in sé, quanto le storie delle costruzioni dei codici che ciascuno usa per avere a che fare con ciò con cui ha a che fare, storie che certo hanno bisogno della cronaca, ma che non si identificano affatto nella cronaca.

Per noi sistemici ciascun soggetto umano vivente è una macchina biologica, un sistema enormemente complesso che agisce, interagisce con il proprio ambiente di riferimento, allo scopo finale di sopravvivere, ed impiega, per modulare, governare la propria continua interazione con i propri ambienti di riferimento, codici neurali: riconosciamo alla rete neurale, al sistema neurale,  individuabile nel nostro organismo, sottosistema del nostro organismo, la proprietà di individuare quali plessi-sequenze di codici neurali sono “adatti” a governare la nostra interazione puntuale con la configurazione degli ambienti con cui abbiamo, istante per istante, a che fare, e di inviarli al sistema motorio, sistema estremamente complesso, anch’esso sottosistema del nostro organismo,  che cercherà di “eseguire” le istruzioni ricevute.

Per il momento non è bene procedere nella direzione di cercare di individuare puntualmente quali e quanti siano i codici neurali, corrispondenti alla attivazione di plessi specifici della nostra rete neurale, che possiamo legittimamente considerare ereditari, ad esempio il riflesso erculeo dei neonati, quanti e quali di questi debbano essere considerati riflessi incondizionati ed incondizionabili, quanti e quali siano quelli condizionabili, e come “funzionino” i processi di condizionamento, decondizionamento e ricondizionamento di tali riflessi ereditari.

O, per meglio dire, in che modo riusciamo a riconfigurare i plessi sequenze di codici neurali che utilizziamo in ogni istante della nostra vita, nei limiti ammessi dal potenziale di “riconfigurabilità” di ciascun codice: fame, sete, riposo, respirazione, evacuazione, si presentano come poco “riconfigurabili”, altri presentano gradi di libertà di riconfigurazione decisamente più ampi, se non per un aspetto specifico, che riguarda, appunto le storie delle costruzioni dei codici che ciascuno usa per avere a che fare con ciò con cui ha a che fare.

E quindi, è meglio non fidarsi affatto nemmeno della somiglianza dei “fiori”, poiché possono avere radici diverse, ma soprattutto perché sono sicuramente “frutto” di storie diverse, uniche ed irripetibili.

Così, ricostruendo le storie dei codici, almeno pezzi, vanno benissimo, pezzi della loro storia dopo che sono usciti dalla pancia della mamma, e anche di pezzi molto più vecchi, quelli ereditati dai nostri progenitori attraverso il DNA, libreria immensa, storie che vanno indietro migliaia, milioni di anni, ci è possibile trasformare l’ospite inatteso e molto sgradito in qualcosa di diverso, nel frutto di una lunga storia.

Così, ad esempio, troviamo, tra i codici primari, quello che “spinge” per restare vicino ai nostri simili, ed il dolore correlato alla loro assenza, tra i più grandi pericoli mortali quando inizia la nostra vita, e poi, nella storia, i codici costruiti per ottenere la vicinanza con i nostri simili, fatti di pezzi in parte trovati tra i codici primari, geneticamente ereditati, in parte clonati o copiati da chi a quel tempo era intorno a noi, in parte “aggiornati” con pezzi nuovi, costruiti per tentativi ed errori…

… e poi ritroviamo, nella storia degli abbandoni subiti, i codici costruiti per averci a che fare, fatti di altri pezzi, anch’essi in parte trovati tra i codici primari, in parte clonati o copiati da chi a quel tempo era intorno a noi, in parte “aggiornati” con pezzi nuovi, costruiti per tentativi ed errori, fino ad arrivare ad oggi, e scoprire, come è accaduto in alcuni casi, che stiamo “rispondendo”, senza saperlo, agli inevitabili abbandoni di oggi, al non essere accolti, o essere rifiutati, allontanati, espulsi, con i codici “scritti” decenni fa…

…“dimenticandoci”, (ma è un tipo di dimenticanza molto speciale, non è un deficit di memoria, e va trattata in modo sapiente… lo riprendiamo dopo), che le nostre capacità, le nostre risorse di adulti sono ben altre, e che possiamo adottare, o costruire, codici più adatti all’oggi.

Noi tutti conosciamo, in parte, la nostra storia, ma non siamo sufficientemente preparati a leggere, nella nostra storia, la storia dei nostri codici, nessuno ce lo ha insegnato, ci hanno insegnato a studiare, e rivivere, la storia come una concatenazione di eventi, che cosa è successo prima e che cosa è successo dopo… e questo non basta, non ci permette di individuare, passo passo, che cosa ci ha portato di buono, di salvifico (sì, abbiamo a che fare con la vita e con la morte, con questioni realmente vitali) ciascuno dei codici che abbiamo “costruito”, al tempo in cui lo abbiamo costruito.

Quello studio della storia non ci permette di usare altre conoscenze enormemente preziose, necessarie a poter “innestare” i nuovi codici, più efficaci e adatti all’oggi, ai bisogni ed ai desideri di un adulto, su quelli “vecchi”, anche se spesso qualche idea di come-si-deve-fare-invece ce l’abbiamo chiarissima, è che non funziona, non riusciamo a usarla, una specie di rigetto, e continuiamo come prima.

Tra queste conoscenze preziose si trova quella relativa alla “protezione” dei codici che per noi hanno funzionato, una specie di blocco alla riscrittura, come ce l’hanno normalmente i file di sistema dei nostri personal computer, così come hanno la proprietà di essere “nascosti”, in modo che chi utilizza il pc non possa, inavvertitamente, casualmente, mandare in tilt il sistema operativo.

I nostri codici, e la loro storia, sono “nascosti” nella nostra storia, e finché non li vediamo non possiamo certo modificarli, anche se disponiamo di ciò che serve per poterli modificare… e anche una volta “visti”, non possiamo cambiare nulla prima di aver riconosciuto che sono “protetti da sovrascrittura o modifica”, e senza sapere come “rimuovere la protezione”: tra le operazioni necessarie vi è quella di individuare e riconoscere i benefici che quel codice, attraverso quel codice, abbiamo ottenuto… e che, quasi sempre senza saperlo, senza potercene accorgere, continuiamo oggi a cercare di ottenere.

La storia non può essere riscritta, quella è e quella resta, ma accedere a queste storie nella storie, alle storie dei nostri codici, ci rende possibile ora scriverne un’altra, ci rende possibile ora, certo in parte, ma in misura più che sufficiente, modificare stabilmente i codici, in modo che il panico non sia più la sola e ultima risposta che possiamo dare a quelle circostanze della nostra vita, in modo che ci sia possibile recuperare e “riparare” qualcosa di ciò che è stato danneggiato in passato, se ha valore per noi, e procedere su nuovi e buoni sentieri.

Così è stato per i miei allievi, ricostruzioni tutte diverse, e per molti aspetti straordinarie: nella costanza della irriducibile diversità, alcuni aspetti sembrano convergere verso direzioni, verso fuochi vicini o simili, ed è di questi pochi aspetti di “convergenza” che vorrei un po’ raccontare.

Tempo e memoria

Lo so, su queste due cose ci hanno scritto centinaia, migliaia di libri, qui saremo essenziali, se non proprio brevi: il fatto è che, o almeno così indicano i riscontri, sotto attacco di panico sparisce il tempo e buona parte della memoria.

Tempo e memoria spariscono anche ben prima di arrivare al parossismo del panico, spariscono spesso anche in molte altre circostanze… per evitare fatiche inutili, sarebbe meglio intendersi su che cosa indichiamo con i due termini, tempo e memoria.

Che cosa siano tempo e memoria lo sperimentiamo tutti, e poi, va bene, ciascuno ha, o non ha, la sua idea su che cosa accidenti siano,  questo non è importante, per noi qui.

È un po’ più importante invece capirsi sul punto specifico: sotto attacco di panico, ed in molte altre circostanze, sparisce il tempo e sparisce la memoria.

Per noi sistemici del comportamento umano il tempo è un effetto collaterale, correlato al funzionamento del nostro sistema di pensiero simbolico e del nostro sistema di pensiero operazionale: il tempo, basicamente il contenitore del prima, dell’adesso e del dopo, non lo troviamo nell’ambiente reale, qualunque esso sia, se non dopo averlo trovato nei nostri ambienti virtuali.

I nostri sistemi di pensiero, operazionale e simbolico, hanno la proprietà di riuscire a collocare l’adesso (configurazione dell’ambiente virtuale attuale) nel prima, ed il dopo nell’adesso, tentando di ottenere risposte alla domanda, ad esempio,  che cosa potrebbe succedere se faccio questo, per saggiare le probabilità che ciò che vorrei ottenere io riesca poi ad ottenerlo, per provare a trovare che cosa potrei fare in quel caso… oppure il prima nell’adesso,  alla ricerca di che diavolo può mai essere successo prima… e l’adesso nel dopo, anche nel molto dopo… insomma ci sono possibili tutte le combinazioni, ma, per noi umani, resta confortante il poter contare che là fuori, rispetto all’ambiente reale, c’è un tempo per ogni cosa e ogni cosa ha il suo tempo, c’è un prima che resta prima, c‘è un adesso che resta adesso, e un dopo che resta dopo.

Ecco, il tempo sparisce nel senso che non c’è più un prima abbastanza riconoscibile e distinto dall’adesso, e non c’è più un dopo abbastanza riconoscibile e distinto dall’adesso, tutto accade adesso.

John non sa più che cosa viene dopo quello che ha appena detto, il dopo non c’è più, se potessimo chiedergli come è arrivato lì quasi certamente non saprebbe rispondere, Rebecca deve assolutamente scappare dalla sua casa, subito, quello che pensava che avrebbe fatto, una volta nella sua nuova casa, non c’è più, Catherine non può proseguire, deve fermarsi, magari provare a tornare indietro, sparisce qualunque importanza del raggiungere la meta, chiarissima nel prima, Elise è nel dopo che è adesso, la mandano via dal lavoro, il fidanzato non la vuole, spariti il prima e l’adesso, a quel che pare.

Formidabile.

Succede lo stesso quando il nostro dentista è maldestro nell’eseguire l’anestesia trunculare, e noi dobbiamo restare immobili nonostante il dolore atroce, sennò è peggio, no?, oppure mentre stiamo avendo un orgasmo… e in molte altre “circostanze”.

Usciti da quei frangenti, a quel che mi dicono, e per quello che ho potuto direttamente riscontrare, il tempo torna, otteniamo la confortevole conferma che il prima è ancora un prima, il nostro adesso un adesso, e il dopo… beh, poi vediamo.

Come mai ci accade queto? Quale, o quali spiegazioni possiamo darci, coerenti con la legge fondamentale, inviolabile, irrinunciabile per qualunque pensiero scientifico: se accade c’è una ragione, una buona ragione, un qualche tipo di beneficio che è correlato a questo funzionamento della nostra macchina biologica.

Per il momento ho solo una ipotesi, buonina, secondo me, ma niente di più… ce ne occupiamo dopo, magari, “adesso” diamo un’occhiata alla memoria, per quanto possibile.

Onestamente non saprei dire se è qualcosa di “sorgivo”, oppure se è un effetto collaterale della sparizione del tempo, oppure se è, perché no?, a sua volta effetto correlato ad altro  a cui “poi” si correla la sparizione del tempo, e fin qui credo che nessuno lo sappia… ma anche su queste basi incerte e malferme, possiamo tentare di muovere qualche passo, meglio che niente.

Memoria e ricordo, insieme ad altri termini, come pensiero, tempo, indicano qualcosa che “sappiamo” tutti che cosa sono… noi sistemici, umilmente, ci rifiutiamo di affermare di disporre davvero di questa sicura conoscenza, riscontrando ad ogni passo di brancolare, se non nel buio, nel semibuio parziale… se la realtà è azione (detta un po’ stringata, me ne rendo conto), allora il ricordo è “ricordo” di una o più azioni (tesi assai antica, risale alla metà circa del 1800), e la memoria è, più o meno, il nome del processo che si attiva (nota bene, si attiva, pur potendo noi sollecitare consapevolmente questa attivazione…. sembra una cosa semplice,  per noi in verità è spaventosamente complessa) e ci riporta quel “ricordo” di azioni, più o meno complesso e articolato… la memoria delle azioni, il ricordo delle azioni, dovrebbe coincidere con l’attivazione di quei plessi di rete neurale correlati ai neurogrammi, specifiche istruzioni scritte in codice neurale, che al “tempo” hanno costituito la nostra presa su quella configurazione di ambiente, reale o virtuale, neurogrammi che ora sono embricati con ciò che troviamo nei nostri ambienti virtuali, pronti ad essere inviati al resto del nostro sistema motorio…

Lo so, messa così è difficile da intendere, occorre un certo tempo per risolvere i rebus delle descrizioni altrui, e comprendo “dall’interno” la sensazione di insofferenza che si prova quando siamo alle prese con una descrizione, fatta da un altro, di ciò che ci accade e che riteniamo di sapere bene che cosa sia, e dato che è diversa, non è nostra, non l’abbiamo “fatta” noi, ci risulta o incomprensibile o sbagliata…

Mi ricordo perfettamente, secondo me, di Maria, una ragazzina mia coetanea, sedici anni, assai graziosa e formosa, di cui, come Romeo, per due settimane mi sentii e dichiarai perdutamente innamorato, vabbé la sua si chiamava Rosalinda, più o meno è lo stesso, i nomi contano poco… non è facile per me, e non lo è per nessuno, che io sappia, riconoscere in questo ricordo l’enorme varietà, ricchezza e complessità dell’intreccio di azioni che, letteralmente, costituirono Maria, cinquanta e rotti anni fa… alcune delle cose che “potevo farci”, con Maria, sono fin troppo facilmente immaginabili, molte altre non sono così facili da acchiappare.

Le azioni, tutte quelle a me consapevolmente e inconsapevolmente disponibili, costituivano per me Maria… che cosa o chi fosse Maria, non potevo certo saperlo allora, né potrei ora, la “realtà-in-sé”, da secoli sappiamo che è e resta, per noi, conoscenza preclusa, impossibile, con notevole impegno e fatica riusciamo a sapere qualcosa di che cosa è la realtà-per-noi.

Maria era, ed è, l’insieme di tutte le azioni che a me è possibile dispiegare per averci a che fare, per avere a che fare con quella configurazione di ambiente, reale e virtuale, in costante mutamento (che lo sappiamo o no, è irrilevante… nulla resta mai fermo)… dalle ovvie fantasie erotiche ai meno ovvi tentativi di “comprenderne l’interiorità”.

Memoria delle azioni, memoria delle “capacità”, che altro non sembrano essere se non raggruppamenti “stabili” di neurogrammi, di istruzioni scritte in codice neurale, che mi permettono di ottenere ciò che desidero, di cui ho bisogno, dalla prova della potentia coeundi e il raggiungimento dell’estasi orgasmica, alla prova della efficace esecuzione dello smash,la sconfitta dell’avversario e l’esultanza della vittoria, alla prova della perita esecuzione delle procedure e dei protocolli distintivi del mio mestiere, la riuscita del servizio e l’incasso della parcella.

Ecco, questa memoria non c’è più, avendo a che fare con ciò con cui ho a che fare ora ogni mia abilità, capacità, competenza, sapere sembra sparire totalmente.

Da un lato ci ritroviamo senza tempo, tracce specifiche di pericoli, di minacce passate e future, di catastrofi future e passate sono tutte qui, nel tempo presente, in un tempo che ha fuso tutti i tempi, e hanno la stessa potenza minacciosa di quelle reali, che potrebbero esserci ora, nel nostro presente, a cui si sommano… ci ritroviamo privati della memoria delle nostre capacità, delle nostre abilità, di come siamo riusciti nel passato a risolvere le grandi difficoltà che abbiamo incontrato, e di come quelle e altre capacità ci permetteranno di affrontare e risolvere ciò che incontreremo in futuro, dalle cose più semplici a quelle più complesse e complicate.

E dall’altro lato ci troviamo, almeno apparentemente, in balia di quelli che molti, se non tutti, chiamano sintomi, palpitazioni, senso di respirare male o soffocare, giramenti di testa, costrizione toracica, nausea, dolori addominali, bisogno di urinare spesso, diarrea, tremori, sensazione di sbandare, vertigini, parestesie…  un inferno da cui desideriamo uscire immediatamente, a qualunque costo, a qualunque prezzo, ma subito… mentre il tempo sembra non passare affatto, i pochi minuti (dicono in genere una decina, quindici…) che passano tra l’inizio dell’attacco e la sua fine sono per noi un presente eterno, infinito, senza inizio né fine.

E anche quando si attenuano i sintomi, e recuperiamo memoria e capacità di distinguere passato, presente e futuro, la tensione non ci abbandona, si attenua, ma non se ne va, spesso lasciandoci sfiniti, svuotati, privi di energia.

Memoria e tempo hanno bisogno di energia, per potersi attualizzare, e una buona parte della nostra energia è stata consumata dalla nostra primitiva e possente risposta e soluzione all’attacco totale che abbiamo appena subito… per poter disporre della nostra memoria e del nostro tempo “normale”, passato, presente e futuro, dovremo recuperare energia, in qualche modo… riposando, dormendo, respirando profondamente.

Questa è, grosso modo, l’idea che mi è venuta per rendermi spiegabile la sparizione del tempo e della memoria: abbiamo dovuto consumare un sacco di energia per resistere e superare un attacco totale, i codici primari che hanno guidato la nostra difesa, la nostra risposta, hanno “dirottato” una grande quantità di energia per riuscire a realizzare la risposta all’attacco, non ne è rimasta abbastanza, in questo momento, per rimettere pienamente in funzione memoria e tempo.

Il panico è, né più né meno, questo: una difesa primitiva ad un attacco, il panico non è il nemico, è la risposta all’attacco del nemico.

E possiamo essere sicuri che, quando compare quella risposta, c’è un nemico, una grave minaccia, un pericolo grave, anche se non riusciamo a “vederlo” consapevolmente: la nostra macchina biologica non sbaglia, e adotta la soluzione, la risposta migliore che ha.

Ma, come dimostrano le storie con cui ho avuto a che fare, e di cui ho fatto cenno, non è affatto detto che la migliore risposta, la migliore soluzione che abbiamo debba per forza restare il panico: almeno un modo c’è, per riuscire a disporre di soluzioni e risposte migliori, probabilmente più di uno, io ho trovato questo.

La magia dei codici

A volte mi è tornato utile, per cercare di farmi intendere, ricorrere a una magnifica metafora che ho trovato in uno degli episodi di una celebre saga per bambini (apprezzata anche dagli adulti, a quel che pare), quella di Harry Potter: mollicci e dissennatori.

Entrambe creature magiche, capaci di terrorizzare fino all’annientamento, il molliccio in grado di prendere l’esatta forma di ciò di cui abbiamo più paura, il dissennatore una specie cadavere volante capace di estrarre dal corpo umano ogni stilla di energia, provocandone la morte: assai temibili, devastanti.

Per difendersi da queste creature devastanti, ad Harry vengono insegnati due incantesimi, l’uno capace di neutralizzare la minacciosità dei mollicci, formula: “ridiculus”, l’altro capace di respingere lontano qualunque dissennatore, formula: “expecto patronum”.

Vero, c’è da avere i riflessi pronti, per agire tempestivamente, per bloccare per tempo l’attacco del molliccio e del dissennatore, ed è indispensabile avere a portata di mano una buona bacchetta magica… il che vuol dire essere allenati a portare attenzione immediata ai segnali che indicano l’avvicinarsi della minaccia… e non lasciare in giro la bacchetta magica.

Quando non siamo preparati ad avere a che fare con i nostri mollicci e i nostri dissennatori, insomma con il panico, i sintomi del panico diventano immediatamente i nostri nemici più brutali, è a causa loro se noi stiamo così male: dopo il primo attacco abbiamo quasi costantemente paura che il panico ci riprenda, che quella cosa orribile che ci è successa succeda di nuovo.

Riprendo ancora un momento la metafora, il primo attacco di panico è il nostro dissennatore, e poi arriva il molliccio, la paura che il panico si produca ancora: fino a quando non scopriamo che il panico è una bacchetta magica poco efficiente, e che non abbiamo incantesimi da lanciare.

Fuori di metafora, e tornando ai nostri codici, succede finché non scopriamo che il panico, con i suoi effetti dolorosi (e temporaneamente invalidanti, rispetto alle nostre vite “normali”) non minaccia la nostra vita, ma è una risposta potentissima e antichissima a qualcosa che sta minacciando gravemente la nostra vita, e che il dolore che proviamo non è correlato all’emozione, al panico, ma all’essere, per noi, presente, ora e qui, una grave minaccia alla nostra vita.

Occorre allora cercare di individuare, con la maggiore precisione possibile, che cosa ci sta così gravemente minacciando, e trovare il modo per neutralizzare tempestivamente la minaccia, prima che riesca ad innescare la nostra risposta, la nostra difesa arcaica.

Facile, no?

Non sempre, nella mia esperienza quasi mai, a volte è sufficiente cercare, dare un’occhiata, nella direzione indicata dalla domanda: che cosa mi sta minacciando adesso?, per trovare la risposta, ma è abbastanza raro, poiché se anche ci sembra “ovvio” che sia quello, il più delle volte si rivela essere una risposta inefficace; se la risposta che troviamo, ed i rimedi che possiamo individuare, non impediscono al panico di arrivare, abbiamo la prova che, come minimo, la risposta trovata non è completa ed i rimedi individuati non sono sufficienti a stornare la gravità della minaccia cui siamo esposti.

A volte la risposta che troviamo è ridicola, apparentemente insensata, o anche, sì, proprio nulla, nessuna risposta, meglio, non c’è proprio niente che ci stia minacciando in modo mortale, esattamente come gli specialisti risposero all’amico che era crollato all’uscita del hotel e poi portato al pronto soccorso.

Di nuovo, se c’è dolore c’è minaccia, di questo possiamo essere certi, la nostra macchina non sbaglia mai su questo.

Cercare e trovare la fonte è possibile, come è possibile trovare i codici, quasi tutti già disponibili, alcuni da costruire, ma è poca cosa, “magici”, cioè quei codici che noi possiamo usare per stornare o allontanare a nostra volontà minacce e pericoli, rendendo inutile “l’intervento” del panico… e godendoci la vita più che possiamo.

Tutto qui? Beh, non proprio, ad esempio, un’occhiatina, in genere, è meglio darla, per sicurezza, a come è configurato quello che possiamo chiamare “il nostro Io”, anche questo uno stupefacente e meraviglioso codice “magico”, certo codice neurale, ma veramente magico.

 

Che cosa è la Sistemica del Comportamento Umano

È una forma della conoscenza di come funzioniamo, capace di aiutare a comprendere il senso di ciò che ci accade, specialmente quando a noi sembra che non abbia alcun senso, sia quando ci occupiamo di noi stessi, sia quando abbiamo a che fare con interazioni e relazioni con i nostri simili, due tra le cose più difficili nella vita di chiunque.

Attraverso questa conoscenza è possibile, per ciascuno, ottenere effetti positivi sul proprio benessere, sulla qualità delle proprie prestazioni e delle proprie performance.

Nella Sistemica del Comportamento Umano confluiscono elementi provenienti da altre discipline e dal lavoro di molti autori diversi, tra cui Darwin, James, Freud, Bateson, Watzlawick, Maturana, Damasio, Mayer, Rizzolatti, integrati in un quadro concettuale coerente con i criteri distintivi della epistemologia e la metodologia sistemica: è una sintesi originale e innovativa, che mette al centro della attenzione la storia e lo sviluppo dei nostri codici neurali, il funzionamento del nostro sistema emotivo, i nostri ambienti virtuali, i nostri sistemi di pensiero, i sistemi che “producono” i nostri pensieri.

Non è, né intende essere, una terapia, benché innegabili e comprovati siano gli effetti positivi sul benessere personale e collettivo, sulla qualità delle prestazioni e delle performance: tali effetti non sono distintivi delle sole terapie, comunque intese, ma anche di molteplici, altre e diverse attività umane, dall’esercizio sportivo alle passeggiate nei boschi.

La modalità di acquisizione di questa conoscenza, che prevede letture, consultazione di materiali multimediali, confronto e supporto di un esperto della materia, osservazione e analisi delle vicende professionali e/o personali di chi intende apprendere, configura la Sistemica del Comportamento Umano come un elemento della educazione di adolescenti ed adulti: a mia conoscenza non esistono ad oggi contenuti e programmi educativi dedicati alla prima ed alla seconda infanzia, riconoscibili come afferenti  alla Sistemica del Comportamento Umano.

Materiali multimediali e numerosi scritti sono liberamente consultabili dal sito https://humansystemics.net/

[i] Hawking, Stephen W. La teoria del tutto (Italian Edition) (pp.78-79). RIZZOLI LIBRI. Edizione del Kindle.

DOWNLOAD