Stress da separazione, natura e rimedi

Ammetto che la questione, il problema, lo specifico stress presentato da Elizabeth, ormai alcuni anni fa, mi interessava parecchio: è un groppo tremendo, con cui tutti noi, prima o poi, facciamo i conti, una bestiaccia feroce che morde tutti, ovvietà e inevitabilità ne sono i tratti principali.

È inevitabile, prima o poi, perdere qualcuno, che qualcuno ci lasci, è ovvio che alla perdita, alla separazione si accompagnino dolore e sofferenza, è inevitabile e ovvio che dal momento della perdita, della separazione inizi un tempo, più o meno lungo, di dolore e di abbattimento, a volte di pura disperazione.

A volte la perdita, l’abbandono, è conseguenza di una morte, a volte è una separazione tra viventi, in ogni caso seguono dolore, abbattimento, disperazione, e non di rado rabbia: viene chiamato lutto, e, a mia conoscenza, non sono tanti ad essersi  interrogati sulla sua natura, sulla sua necessità, nella comune conoscenza è collocato tra i fenomeni “naturali”, come il sorgere ed il tramontare del sole, la pioggia, il fuoco.

E come tale viene trattato, apparentandolo, e la similitudine tiene, alla perdita di una parte di sé, al dolore che fisicamente proviamo quando veniamo menomati, per un certo tempo dopo la menomazione, a volte anche per lungo tempo, a volte per tutta la vita.

A mia memoria, l’unico che ammise di non poter e saper dire molto altro fu Sigmund Freud, mi sembra intorno al 1915, nonostante il fatto di essersi poi lungamente occupato di lutto e di melanconia, pur in assenza di una convincente spiegazione economica del dolore: non sappiamo perché, non sappiamo che funzione abbia, non ha senso che la giovine vedova per lungo tempo rifiuti le proposte di pur validi pretendenti: ampie e articolate descrizioni del come, i perché non si trovano, e nemmeno i rimedi.

Ad oggi non mi risulta che si trovino letture più adeguate del lutto, e nemmeno delle forme di lutto da separazione che esitano, con allarmante frequenza, nelle guerre legali, nello stalking, e peggio ancora nell’uxoricidio, nell’omicidio, nel femminicidio, senza affatto dimenticarci del suicidio.

La sapienza comune resta ancorata alla similitudine della menomazione, alla ovvietà della rappresaglia e della vendetta rivolte contro chi ha causato la menomazione, alla sensatezza del togliersi la vita per ottenere la cessazione di un dolore insopportabile.

 

Di nuovo la sapienza comune indica nel tempo galantuomo il rimedio principale, e altri accessori, ad esempio allontanarsi temporaneamente, assicurandosi una discreta e affettuosa compagnia, magari un viaggio, una crociera, distrarsi insomma, sport e simili.

Un po’ meno nella sapienza comune, già più da “specialisti”, varie forme di supporto alla cosiddetta “elaborazione del lutto”, più o meno di stampo e sapore psicoterapeutico, e, certamente, farmaci per la “regolazione dell’umore”.

Da tempo desideravo porgere l’aiuto sistemico a chi si trovasse a dover affrontare il cosiddetto lutto, non bastandomi le prove che avevo raccolto, diciamo così, di prima mano, ricorrendo a questa sapienza per avere a che fare con le separazioni che avevo incontrato.

Con Elizabeth ho iniziato, fiducioso, un nuovo viaggio, in qualità di aiutatore, di Helper, di aiuto, mantenendo stabilmente un vertice di osservazione considerevolmente diverso da quello suggerito dalla conoscenza comune, quella che ci è stata consegnata, in modo diretto o indiretto, nel corso della nostra vita.

Con l’impegno a dare ben altro senso e contenuto alla “perdita”, al dolore che la accompagna, e, soprattutto, ad individuare nella pratica che cosa realmente aiuti ad attutire la reale e indubitabile sofferenza e a proseguire con soddisfazione il viaggio della propria esistenza.

A partire proprio dalla prima e più vistosa evidenza sensibile: non vi è alcuna menomazione, non solo, non vi è alcuna rilevante minaccia alla sopravvivenza di Elizabeth, che si trova in condizioni di buona sicurezza e in eccellente stato di salute.

Eppure, altrettanto evidente, incontriamo la prova della esistenza di almeno una, o forse più di una, grave minaccia alla vita di Elizabeth, segnalata incontrovertibilmente dall’intenso dolore che prova da parecchie settimane.

Elizabeth ha tentato di avvalersi di un blando supporto psicoterapeutico, senza alcun risultato, Elizabeth oppone un rifiuto incrollabile al ricorso ai farmaci, e, dopo alcuni incontri che abbiamo convenuto essere necessari ad entrambi per poter sciogliere le rispettive riserve, accetta di proseguire con me il cammino.

Cammino che è costituito da incontri, la cui durata e frequenza decideremo insieme, di volta in volta.

Iniziamo da sette

La sessione di oggi è stata durissima, per Elizabeth e per me: pianto dirotto, a più riprese, mi dice rimandiamo, oggi non ce la faccio, sono stanchissima, ieri sera ho anche provato a uscire, amici buoni, di quelli veri, ma non va, non mi fa bene…

Che succede, che cosa è mai accaduto di così tragico da portare una signora nemmeno cinquantenne a prorompere in pianto, a dichiarare con toni intensamente disperati che non ce la fa, a chiedere di rimandare una sessione… una signora colta, che ha girato il mondo, che ha lavorato in prestigiose aziende multinazionali, in ruoli di buon prestigio e rilievo,  decisamente ancora bella ed attraente, due splendidi figli, un marito di alcuni anni più giovane di lei, bello, forte, capace, già oggi in posizioni di alta dirigenza, ed in costante crescita…

Ah già, il marito… il quasi ex-marito.

Tra poche settimane in udienza verrà firmato un accordo di separazione coniugale liberamente, si fa per dire, concertato da e tra i due coniugi, con l’assistenza di un valido legale, nessuna contesa, il marito (quasi ex) ha accolto senza battere ciglio tutte le richieste di Elizabeth, economiche e non economiche, custodia dei figli, visite, tutto, insomma.

Dopo 15 anni, per assenza di affectio coniugalis, occorre separarsi… e oggi è il compleanno del figlio maggiore, che Elizabeth vede, mentre siamo in sessione, ritratto in una istantanea di una decina di anni fa, medesima celebrazione, tutta la famigliola, papi, mami, figlio e fratellino…

E il pianto prorompe, copioso e violento, alterando i suoi bei lineamenti, togliendole il fiato, e impedendole di continuare a proferire parola… datemi retta, non ci si abitua, io non ci sono mai riuscito… lo ammetto, non voglio proprio riuscirci.

È la settima sessione, ancora esplorativa, altre ne seguiranno, fino a quando non potremo sciogliere le riserve, decidere, sia lei che io, che ha senso continuare, che io potrò esserle di aiuto e che lei potrà essere, e sentirsi, aiutata.

Rispetto a che cosa?

Per ora il piano di riscontro è molto generale, al termine del primo incontro ho potuto indicarle buone possibilità di ottenere una migliore governabilità della sofferenza che prova, intensamente, da mesi, un recupero di energia da poter impiegare, è spesso spossata, sfinita, le crisi di pianto la sfiniscono, e fatica molto a seguire come vorrebbe, e secondo lei dovrebbe, i figli, ad occuparsi delle altre questioni di cui solo lei può e deve occuparsi.

Dovremo riuscire a identificare obiettivi più precisi, cosa che al momento non pare proprio possibile, occorrerà attendere, mentre attraversiamo, mentre compiamo insieme questi primi passaggi.

Passaggi da che cosa a che cosa?

Non è che sia chiarissimo nemmeno a me, che pure dovrei avere le idee più chiare… una prima faticosa conquista è stata consentita dall’accogliere una evidenza solo apparentemente ovvia e scontata: se provi dolore, e non ci sono dubbi possibili su questa condizione, allora qualcosa minaccia la tua sopravvivenza.

E occorre che riusciamo ad individuare con sufficiente precisione che cosa è così gravemente minacciato e come ciò che ti minaccia può recare irreparabile danno, prima di poter anche solo provare a trovare un antidoto, qualcosa che riduca o azzeri la minaccia cui sei esposta.

Il nostro sistema emotivo, frutto evolutivo del sistema nocicettivo e del sistema proficettivo, non mente mai: il dolore provato è prova sufficiente, e non questionabile, del presentarsi, negli ambienti con cui abbiamo a che fare, di una minaccia alla nostra sopravvivenza.

Potremmo considerarlo alla stregua di un semplice sistema di allarme, no?

No, meglio di no… il sistema emotivo umano, sistema costitutivo di ogni essere umano, non si limita a segnalare una minaccia, o una opportunità… certo, fa anche quello, in questo caso, per il momento, di opportunità non se ne vedono molte, così non possiamo riscontrarne l’intervento.

Il dolore è molto intenso, al punto da “obbligare” Elizabeth al pianto dirotto (il pianto è un dispositivo arcaico finalizzato a consentire immediato, anche se lieve e non risolutivo, sollievo), urla, in un certo senso, così “forte” da rendere a tratti impossibile per Elizabeth il pur solitamente agile e fecondo utilizzo del pensiero… già, urla forte, molto forte, che cosa dice, lo sappiamo?

Sì, lo sappiamo, è il comando più antico di tutti, il comando cui anche l’ameba obbedisce quando incontra una soluzione acida che può mettere fine alla sua rudimentale vita, lo conosciamo tutti, dice via-di-qui-subito, via-di-qui-subito, poiché qui è la morte.

Al tempo in cui questo comando salvifico fu conquistato dalla nostra specie, plausibilmente, nulla avrebbe potuto frenare il moto compulsivo di allontanamento, possente quanto un riflesso non condizionato e non condizionabile, ci sono voluti milioni di anni per riuscire a modificarne, in parte, il grado di cogenza.

Avete mai provato a pensare quando il comune mal di denti vi colpisce duro? Se no, beh, vi auguro di non provarlo mai così intenso, se sì sapete già che cosa implica: non ci possiamo chiedere di pensare in quelle condizioni, finché c’è lui, il pensiero non ci può essere, se non nella forma di ogni possibile prefigurazione di come sfuggire al suo morso implacabile.

Elizabeth non ha il mal di denti, anzi, ha una chiostra dentaria ancora magnifica, tuttavia ciò che sta provando, credibilmente, arriva a grandi intensità, se non la massima, di poco sotto la massima.

E non le è possibile obbedire all’antico comando via-di-qui-subito.

Un non-sistemico, a questo punto, su questo punto, scrollerebbe la testa, probabilmente, incredulo, se non confuso: e da dove mai dovrebbe andare via? Si trova in una bella casa, luminosa, spaziosa, ordinata e pulita, una magnifica libreria carica di libri e di oggetti graziosi alle sue spalle, è molto ben vestita, acconciata, non è né sovrappeso né sottopeso… certo, e ci aggiungo anche che non rischia certo di patire fame e privazioni, né lei né i figli, una accorta amministrazione patrimoniale li ha messi al sicuro per parecchi anni.

Dunque che cosa significa, che cosa c’entra, che senso ha questo ipotetico comando via-di-qui-subito? Nessuna morte è prossima, e dunque il sistema emotivo ha fatto cilecca, è scattato a vuoto, magari è difettoso…

Il nostro amico non-sistemico ha ottime ragioni e ottime argomentazioni: è del tutto vero che, nell’ambiente reale, nessuna minaccia è in questo momento presente, non tale da sollecitare l’innervazione del comando via-di-qui-subito.

Probabilmente trascura, o non è a conoscenza, della nostra, umana, caratteristica sistemica distintiva, che potremmo chiamare doppia vita: ciascuno di noi  vive simultaneamente, ha a che fare, simultaneamente con almeno due ambienti, l’ambiente reale, in cui per Elizabeth, almeno per ora, non si presentano serie minacce alla sua sopravvivenza, e l’ambiente virtuale, che è tanto reale quanto quello reale, ma che si trova, per così dire, all’interno della scatola cranica di tutti noi, anche in quella di Elizabeth.

Il nostro amico forse trascura, o forse non sa, che in più di un senso la maggior parte della nostra vita noi la sperimentiamo, la viviamo (e facciamo molte altre cose significative e importanti) governando la nostra interazione con i nostri rispettivi ambienti virtuali, dove tutto ciò che può accadere accade, e di cui ci serviamo per governare la nostra interazione con l’ambiente reale, dove solo ciò che può accadere accade.

Suona bene, vero? Sì, piace anche a me, e mi pare che non sia affatto un gioco di parole.

È stata una conquista faticosa per Elizabeth, paralizzata davanti alle evidenze incontrovertibili, per lei, più e più volte espresse, che tutto fosse e sia andato in malora, ma non facciamo i furbi, è faticosa anche per noi.

Per un non-sistemico la questione è presto risolta: e va bene, è stata mollata dal marito, va bene, con due figli ancora da finir di crescere, e va bene, il sogno romantico della famiglia felice stile mulino bianco si è infranto, e, per finire, va bene, il marito si è trovato probabilmente una giovine attratta dal suo rango e che tenterà di approfittare, o magari si è trovato una vittima a cui fare la solita proposta, non molto morale, ma succede in continuazione.

È in buona salute, si occupa bene dei suoi affari, non ha problemi di soldi, i figli cresceranno, le passerà.

Sono storie raccontate da migliaia di anni, sempre le stesse, spesso peggiori e molto più sfortunate, sarebbe meglio occuparsi di cose più serie e più gravi, con tutto il rispetto per il legittimo dolore di una madre esemplare e moglie fedele tradita e abbandonata dal marito.

E qui salutiamo urbanamente, senza particolare calore, il nostro amico non-sistemico, grati per il suo incisivo contributo, di cui faremo buon conto, educatamente si toglie dai piedi, bene, continuiamo il nostro cammino.

Per noi sistemici le cose non stanno né proprio, né solo così, forse con una punta di invidia accettiamo che Elizabeth non abbia al momento difficoltà economiche, e che sia poco probabile che ne avrà in futuro, beata lei, ci fa piacere che sia in buona salute e che, sì, forse questo merita un approfondimento, crisi di pianto a parte, sia in buona, se non ottima, forma.

E restiamo leali e fedeli a ciò che sappiamo, se il dolore è reale, e lo è, allora la minaccia è reale, e riguarda qualcosa di vitale di Elizabeth.

Che cosa?

 

Stuck

Da parecchie settimane siamo fermi, durante l’ultimo incontro Elizabeth è stata irremovibile, basta, fermiamoci, non ci riesco, non è mia, non è mia…

Da alcune settimane sono frequentemente al lavoro su questo, che cosa ha fermato Elizabeth?

No, non è questa la questione, Elizabeth non si è fermata, come potrebbe, la vita continua a fluire attraverso ogni cellula del suo corpo, i ragazzi vanno a scuola ogni giorno, e poi tornano, ogni giorno c’è da occuparsi del proprio igiene, vestirsi, sorvegliare che le operazioni di ripristino dell’ordine della casa siano adeguatamente eseguite, tenere d’occhio i conti, sbrigare incombenze amministrative, vedere se oggi è meglio una lunga camminata, andare al poligono di tiro, oppure al golf club, controllare quali siano gli impegni con il Sailing Club di cui è vicepresidente, le chiamate degli “amici”, dare un’occhiata alle opportunità di lavoro, che cosa si muove in rete, che cosa sta combinando l’ex-marito, mandargli messaggi, memo, email, rimproverarlo per una delle sue solite stronzate, salta la visita ai bambini e se ne va in giro con la sua troia, ma che razza di padre, gli compra cose che erano d’accordo che non andassero concesse, non gli fa fare i compiti, se ne frega, non impedisce a Frederick di ingozzarsi di schifezze, siamo già oltre il limite dell’obeso, e ha solo 11 anni, non aiuta Ethan con i compiti di fisica, vabbé che c’entra se ha 15 anni, lo sai che Ethan con queste cose ha sempre fatto fatica, no? non hai cura dei bambini e questo non è accettabile, e poi tenere d’occhio come vanno i bambini a scuola, eggià, secondo loro va sempre tutto bene, nessun problema, solo una noia mortale, cheppalle, e poi scopri che Ethan non consegna gli homework, arrivano avvisi dalla direzione che denunciano gravi comportamenti di Frederick, bullismo, oppure lo hanno beccato che giocava con il tablet durante la lezione, oppure che ha messo firme false sul modulo di presa visione del report settimanale sull’andamento scolastico… scorre di giorno e scorre di notte, e sì, mica sono notti che uno dorme, macchè, i bambini non si vogliono staccare da quei dannatissimi videogiochi, farli andare a letto ad un’ora decente vuol dire litigare forte, spesso urlare, e poi Frederick continua a voler dormire con la mamma, non ce la fa a dormire nel suo letto, ed è così da anni, da quando quel bastardo del marito ha accettato il primo incarico extracontinentale, quanti anni sono, vediamo, otto, si sono otto, e poi Ethan alle 2 del mattino si infila nel lettone con la mamma e il fratellino, e litigano e non mi lasciano dormire, vabbé, poco male, tanto mi ero svegliata, il primo pensiero è sempre per quell’animale, quel bastardo che mi ha portato via tutto, e mentre i bambini si addormentano io vado a vedere che altra cazzata ha combinato, che cos’altro ha pubblicato, ah!, beccato, ma lo vedi, ma che coglione, con la sua troia e pure con un anello al dito, ah no, non il mio, il mio lo rivoglio, me lo ha promesso, dice che lo terrà per sé, ma io lo rivoglio, è il mio anello, sarebbe meglio che morisse, ah sì, molto meglio, dio se fosse morto tutto sarebbe più semplice, incasserei i soldi dell’assicurazione e non lo vedrei mai più, vorrei vedere morta anche la sua troia, quella che me lo ha portato via, io quella la ammazzo, e prima la voglio veder soffrire come un cane, e lo farò, lo giuro sulla testa dei miei figli, ci vorrà tempo, e sarà difficile, ma lo farò…

No, proprio non si è fermata, continua a percorrere ogni giorno gli stessi sentieri, ad alimentare gli stessi pensieri, a provare la stessa rabbia, lo stesso dolore, a tratti quasi sedato, a tratti acuto, come quando rimette le mani sul marito, sul ex-marito fedifrago, eh lì siamo sicuri che il dolorimetro, scala 1 a 10, registra 8, anche 9

E decine e decine ancora di altri pensieri, di altre convinzioni, ripetuti ancora e ancora, dal ah i bambini li spedisco dal padre, che ci pensi lui, non c’entra, sì, sono totalmente affidati a me, si cambia, vadano con lui, io metto lo zaino in spalla e me ne vado, o mi uccido, così ho finito di soffrire, non servo a nulla, a nessuno, sono solo un peso, anche per me, soprattutto per me, basta, finiamola… al io taglio con tutti, basta ne ho abbastanza, mamma, fratello, vecchi amici che rompono i coglioni, via, andate tutti affanculo, al il tempo è galantuomo, tutto passerà, al chi? I bambini? Massì, che mi importa, ce la faranno, non ce la faranno, si arrangeranno, come mi sono arrangiata io, oppure eh no! quel bastardo deve fare la sua parte, per i bambini abbiamo sempre scelto le scuole migliori, perché abbiano la migliore educazione possibile e poi possano avere la vita migliore possibile, certo che costa un botto, chi se ne frega, lui li ha, deve tirarli fuori, sono i suoi bambini, mica li può mollare, eh no, non ce la fa, così tronfio, io io io e ancora io, egoista del cazzo, sempre e solo lui, gli altri si fottano tutti…

Per un po’ lo avrebbe ripreso, il suo Arthur, solo che lui avesse mosso un dito in quella direzione, ma niente, non si mosse… e poi più, nella certezza granitica che non solo mai più Arthur, ma mai più proprio tutti, è fuori discussione, non ne parliamo neanche… che c’entra, sì, ma è solo per allargare la cerchia delle conoscenze, ho provato anche tinder, ma qui non c’è niente per me, sì esco, a volte, un caffè, una passeggiata, ma io con loro non c’entro niente, e loro non c’entrano niente con me, nessuno potrà mai più.

Se serviva rinfrescarci la memoria di che cosa può essere l’inferno in terra, beh, credo che questo campionario abbia raggiunto lo scopo… un carosello infernale, una ridda ripetuta oltre il limite della estenuazione, una danse macabre che ogni giorno e ogni notte va in scena con la sua cieca e volontaria partecipazione.

Visibile a pochi, poiché Elizabeth si presenta sempre inappuntabile, ben vestita, ben pettinata, sì un filo di occhiaie, a volte anche più di un filo, pochi monili ben scelti, esibendo modi urbani, sciorinando una conversazione assolutamente convenzionale e più che socialmente accettabile, rispettosa e composta.

Abbiamo visto insieme questo spettacolo alcune decine di volte, ogni volta per me ha significato torcimento di viscere, posso solo figurarmi il suo contorcersi doloroso e dolente… era un dolore prezioso, di questo ero e sono convinto, quello è il motore possente che permette di realizzare ciò che può apparire impossibile.

E piano piano, pezzo per pezzo, insieme abbiamo smontato l’inferno…

Elizabeth non si è affatto fermata, è che, un po’ di settimane fa, dopo essere riuscita ad avere le prove che era in suo potere uscire dall’inferno, dopo essere riuscita ad uscire, per brevi tratti, dall’inferno, con mia enorme gioia, basta riuscire una volta, poiché anche una volta sola è l’inizio di una svolta possibile, Elizabeth si è imbattuta in un tremendo ostacolo…

Ce ne eravamo accorti, lo avevamo in buona misura individuato e descritto, tradotto utilmente in sistemichese, la lingua che usiamo per individuare, descrivere, comprendere e tentare di modificare i nostri codici neurali, ma temo che ci siamo persi qualche pezzo.

E i pezzi servono tutti, sono tutti importanti, l’opera non può essere completata anche se ne manca soltanto uno, io sto ancora cercando quel piccolissimo dannatissimo pezzo mancante, penso di averlo trovato, di non essere lontano dal completare…

 

Da che parte per l’inferno?

Una volta si rivolse a me chiamandomi scherzosamente Virgilio, non tutti i nostri incontri sono stati devastanti, alcuni sono stati molto soddisfacenti, la similitudine del viaggio dantesco in parte era appropriata, cercando di non dimenticarci mai che Elizabeth era simultaneamente Dante e l’Inferno: non è proprio una passeggiata, non è un ordinato procedere, mentre Virgilio conosce perfettamente struttura e organizzazione dell’inferno, beh, non sono affatto in quella condizione, anche se a me è dato riconoscere rapidamente alcune delle bestiacce più pericolose, alcuni dei veleni più letali… bestiacce che hanno una nobile origine, tutte sono servite alla sopravvivenza della nostra specie per milioni di anni, veleni letali e di formidabile utilità, sapendoli dosare…

Nessuno può sapere come è l’inferno dell’altro, spesso nemmeno come è il proprio, non prima di esserci virtualmente stato, di averlo virtualmente attraversato, e di esserne virtualmente uscito: tra i miei punti di impegno c’è quello di limitare il più possibile il ricorso alla similitudine, alla metafora, al come se… e di dire, di cercare di descrivere ciò che è, accogliendo similitudine e metafora solo come passaggio intermedio, se e nella misura in cui questo aiuta a ottenere una soddisfacente descrizione e comprensione di ciò che è.

Inferno è dove e quando si patisce senza poter vedere la fine, dove la sofferenza, il dolore sono una condizione da cui non si sa, non si riesce a vedere, a intendere come e quando cesserà.

Abbandoniamo la similitudine, e cerchiamo di accostarci a che cosa succede.

Elizabeth sente intenso dolore, e per lei è direttamente collegato alla perdita di Arthur, all’abbandono di Arthur, alla sua assenza ed al modo in cui è avvenuto l’abbandono: questa non è né metafora, né similitudine, è la migliore descrizione di ciò che è, di ciò che era quando iniziammo ad occuparcene insieme.

La domanda che abbiamo formulato da tempo, e che teniamo come una delle nostre guide più preziose per la nostra ricerca di conoscenza e di soluzioni pratiche, è sempre lì: dolore indica indubitabilmente minaccia, che cosa minaccia e che cosa viene minacciato?

Per noi sistemici è poco rinunciabile l’indagine sui due corni della questione, è bene, porta a risposte e soluzioni, indagare circa la configurazione di ciò che è registrato come minaccioso, senza mai trascurare l’altro corno, indagare la configurazione di che cosa è minacciato, evitando con ogni cura di dare per ovvio e scontato qualunque aspetto.

Partiamo da Arthur, dalla assenza attuale di Arthur, registrata come molto dolorosa: il dolore c’era anche prima? Quando Arthur era ancora marito, pur poco presente?

La prima risposta è “naturalmente” no, lasciando da parte i fisiologici dispiaceri di qualunque vicenda matrimoniale, la differenza di intensità, di magnitudo tra questo e quelli è incontestabile.

Sin qui pare tutto normale, non è vero? Arthur, marito, assente giustificato, assente anche per lunghi periodi, alcune settimane, ma presente attraverso le quotidiane lunghe telefonate, gli scambi di messaggi sulle chat, non è classificato come minaccia, il sistema di allarme non “legge” questa assenza come minaccia, quel dolore non travolge Elizabeth.

Arthur, ex marito, in più di un senso assente giustificato, e ancora parzialmente presente nel velenoso scambio a volte telefonico e più spesso in chat, è classificato come minaccia, fonte di pericolo, il sistema di allarme non tace mai, a volte urla, a volte è più in sordina, ma non si riesce a zittirlo, il dolore tocca o trafigge Elizabeth.

Eppure è lo stesso Arthur di prima, non è un altro soggetto vivente, come è possibile, come riusciamo a rendere conto e ragione di questa trasformazione?

Sul piano eminentemente pratico, concreto, e a noi piace molto la concretezza e la praticità, abbiamo già acclarato che Elizabeth non corre alcun pericolo, vediamo capitolo per capitolo.

Con i figli, rispetto al lavoro di accudimento che i figli ancora richiedono, beh, tolte le telefonate e i messaggi in chat, le cose sono esattamente come prima, prima se ne occupava Elizabeth, e ora se ne occupa Elizabeth.

La casa: Elizabeth e i figli vivono in una villa, con piscina e personale di servizio, esattamente come prima, pagati dal ex-marito, è vero, e il timore che l’ex-marito manovri in modo da riuscire a sottrarsi, e riesca nell’intento, ha senso: ma, come più volte abbiamo visto insieme, sarebbe al massimo un bel fastidio, indubbiamente temporaneo.

Elizabeth non solo sa come si fa, pur provenendo da una famiglia diventata nel tempo relativamente agiata, ha vissuto per oltre un decennio senza le comodità della attuale collocazione, ma dispone, materialmente e praticamente, di risorse sufficienti a tirare avanti, con un tenore di vita più che decoroso, benchè certamente meno prestigioso dell’attuale, per una ventina di anni.

Anche se non dovesse trovare altre fonti di approvvigionamento per venti anni, ce la farebbe con quel che ha ora: l’assenza di Arthur, e magari anche una sua possibile ulteriore svolta fedifraga, avrebbe effetti realmente preoccupanti tra venti anni, e i sistemi di allarme umani hanno la caratteristica di attivarsi a fronte di una minaccia, di ciò che ora è registrato come minaccia, che è presente ora, proprio ora, adesso, in questo momento.

Dunque, assodato che sul piano concreto e pratico, ora, in questo momento non ci sono pericoli seri per la sopravvivenza di Elizabeth e dei suoi due figli, che la copertura arriva ai due decenni, il terzo corno della questione, il lavoro, l’occupazione, l’esercizio di una professione, non si costituiscono come elemento capace di scatenare il dolore che Elizabeth intensamente prova.

Anzi, Elizabeth si trova nella invidiabile prospettiva di potersi dedicare a ciò che le piace, a ciò che la appassiona, che la interessa, proprio qualunque cosa, e poter tentare ciò che è privilegio di pochi, e cioè trovare o costruirsi un mestiere, un lavoro, una occupazione che riguardi ciò che la appassiona, che la interessa.

Su questo incontriamo un inaspettato ostacolo, tenteremo di occuparcene in seguito, ma il dato di riscontro è che Elizabeth racconta più volte di non essersi mai sentita realmente appassionata a qualcosa, non ha mai trovato nulla di profondamente e intensamente interessante, fin dall’inizio della sua vita, per quanto le riesca ora di rammentare… questa condizione è più frequente di quanto non si creda comunemente, almeno sulla base dei miei riscontri diretti, bene, vedremo.

Figli, casa e lavoro, di nuovo dal punto di vista squisitamente pratico e concreto, sono più che al sicuro, la presenza o la assenza di Arthur influiscono in misura non così significativa da rendere conto e ragione di una così intensa dolenza, valutazione pienamente condivisa da Elizabeth stessa in più di una occasione.

Non siamo bambini, non ignoriamo che nel rapporto coniugale ci sono, o almeno ci dovrebbero essere, altri aspetti, fonti di energia e di soddisfazione: trovarsi senza il compagno o la compagna espone alla condizione di non poter soddisfare specifici bisogni e desideri, e quindi andiamo a cercare se quella potesse essere la ragione di tanta dolenza.

Arthur si è sempre condotto in modo generalmente affettuoso, salvo quando andava fuori dai gangheri perché le cose non andavano secondo i suoi desideri, ma questo è normale, no?... ecco, da quel punto di vista era parecchio tempo che non la cercava più.

Quanto tempo? Beh, così, più o meno, andando a memoria, alcuni anni... sempre presissimo dal lavoro, quando riusciva a tornare a casa, una volta al mese, a volte più spesso, a volte meno, era sempre stanchissimo, andare fuori, vedere amici, non ce ne aveva proprio voglia… e sì, adempiva i doveri coniugali, si dice così no?, ma era lei a cercare, e lui, beh, ecco, adempiva… come? Entusiasmo? Beh, era sempre così tanto stanco, poverino, a volte era meglio lasciarlo riposare… eh? e io? Io che cosa… ah, beh sì, lunghe settimane, anche di più, ma no, l’astinenza non è mai stata un problema, si sopporta, no? eh? ah no no, mai, certo che si sono fatti avanti, fermati ben prima della frontiera, mi vesto e comporto in modo da non lasciare alcun dubbio a nessuno, il cartello “stai alla larga” è chiarissimo e c’è sempre.

Niente nemmeno qui, da anni i “contatti” erano rarefatti, molto rarefatti, il recente cambiamento di stato, da moglie a ex moglie, da questo punto di vista ha cambiato poco le cose… poco, ma non è un poco da poco, prima aveva la speranza, adesso quella non c’è più… e non voglio più saperne, per me la partita finisce qui.

Già, anche da questo punto di vista non ci sono cambiamenti significativi, non sul piano pratico, ci sono, certamente, su altri piani, ad esempio sul piano della speranza (nome di una emozione molto complessa, vedremo se sarà bene riprendere il tema specifico in seguito), ma il piano della speranza non è là fuori, non è nelle cose che accadono là fuori, nelle opportunità e minacce che si presentano là fuori, nell’ambiente reale.

L’inferno è dentro Elizabeth.

 

 

 

Chi è chi

Per addentrarci negli altri capitoli della vita di Elizabeth, penso sia bene riprendere un aspetto della modalità con cui Elizabeth entra in azione: Elizabeth conviene e concorda sulla  valutazione di relativa sicurezza economica della condizione in cui si trova a separazione avvenuta, condizione che ha lottato per ottenere nei mesi che hanno preceduto la firma dell’atto legale, in più di una occasione, è lei stessa a formularla, mettendo diligentemente in fila gli elementi, posso dire anche con un filo di orgoglio.

In molte altre occasioni il quadro è completamente ribaltato, viene negata l’esistenza di un tesoretto ben custodito e ben amministrato, angoscia e disperazione accompagnano il racconto di come potrebbero mettersi le cose se Arthur, nella praticamente certa (prima era possibile, sì, ma non molto probabile, poco conveniente per lui, soprattutto) causa  di divorzio che, lui ovviamente assistito dai migliori avvocati divorzisti del mondo, sarebbe finita in sede giudiziale, riuscisse a ottenere una sostanziale modificazione degli accordi consensualmente formulati e opportunamente documentati all’atto della separazione.

E le cose si metterebbero malissimo, lei e i figli sul lastrico, nessuna via di uscita: dipendiamo da lui, dal fatto che paghi puntualmente, che onori ogni mese gli impegni presi, la casa, il personale di servizio, gli alimenti, per me e per i figli, tasse scolastiche, spese mediche, varie ed eventuali.

In quelle occasioni si rivelò del tutto inutile tentare di rimettere in campo le evidenze delle robuste protezioni di cui aveva il pieno controllo, se mi azzardavo ad insistere andava su tutte le furie ingiungendomi minacciosamente di smetterla, con modi e toni che non ammettevano altro se non prona obbedienza.

Ne ero sinceramente spaventato, anche se non mi abbandonava la certezza di essere in sicurezza, dato che gli incontri avvenivano in videocall e che ci trovavamo a migliaia di chilometri di distanza, non correvo alcun serio pericolo immediato, insomma… sapevo, come so anche ora, da dove veniva il mio spavento, soprattutto da dove non veniva.

Credo che tutti abbiamo incontrato fenomeni di questo genere, comunemente si parla delle diverse facce che può avere la stessa persona in situazioni diverse, degli aspetti diversi che di volta in volta emergono nei modi di interagire, riportandoli al carattere, alla personalità, alle variegature e sfaccettature della personalità e del carattere.

Ciò che normalmente sfugge alla osservazione comune è che queste sfaccettature, queste variegature, questi diversi aspetti vengono ricondotti ad una unità, costituita appunto dal carattere, ognuno ha il suo, uno, unico e distintivo, dalla personalità, una, unica e distintiva di questa o quella persona: una è la persona, una è la personalità, uno è il carattere.

Credo che a molti sia accaduto di avere a che fare con persone che esibiscono, a momenti, a volte brevi, a volte ore o giorni, aspetti così lontani e diversi da sentirsi in difficoltà nel riconoscere l’identità unica di quella persona, trasformazioni spesso così repentine e intense da spingerci a dubitare di star avendo a che fare con la stessa persona di un attimo prima, fino al punto di domandarsi se chi abbiamo di fronte non sia posseduto da un qualche demone infernale, tanto grande è la differenza.

Differenza che assai spesso si riflette anche nell’aspetto somatico, il volto risulta trasformato, la voce è irriconoscibile, la velocità di movimento, i gesti, le parole, i toni, i pensieri che vengono riferiti, talmente diversi e distanti da poco prima che si potrebbe serenamente concludere di avere a che fare con un’altra persona, che ha preso il posto della precedente sotto i nostri occhi senza che ce ne siamo accorti, una specie di magia, magari un gioco di prestigio, magari un trucco cinematografico.

In quei casi, la difficoltà di riportare ciò di cui siamo testimoni alla unità,  unicità, “stessità” della persona con cui stiamo interagendo aumenta molto, anche nel racconto che a volte facciamo di questi eventi non di rado cogliamo espressioni del tipo, non era più lei, o non era più lui, o sembrava un altro, fino al sembrava diventato matto, è diventata pazza, più o meno temporaneamente.

Siamo colpiti da queste “trasformazioni”, anche se non necessariamente gli esiti per noi sono spiacevoli, a volte si presentano come molto gradevoli e divertenti, il musone intrattabile si trasforma in un intrattenitore formidabile e la festa si anima, a volte, come nel caso di cui parlavo prima, invece no, meno male che ero a migliaia di chilometri di distanza: in entrambi i casi ci colpisce, risultando comunque inquietante.

E dato che l’inquietudine altro non è se non una delle molteplici forme di quella emozione primaria nota con il nome di paura, dato che quella emozione altro non è che un elemento complesso, forma evoluta dell’ancora più antico segnale doloroso, segnale doloroso che a sua volta è un effetto sensibile generato dal nostro sistema nocicettivo, sistema che presidia il compito di intercettare minacce alla nostra sopravvivenza, non sarebbe male riuscire a rendere conto e ragione, anche in questo caso, di che cosa, di quale sia la natura della minaccia e di che cosa risulti minacciato, cosa che cercheremo di fare: per il momento limitiamoci a registrare il dato di fatto, Arthur, in alcuni momenti e occasioni, non è una sostanziale minaccia alla vita di Elizabeth, in altri è una grave minaccia.

Le lacrime, i toni, le dichiarazioni di Elizabeth non lasciano dubbi sulla verità del dolore, della pena che sta provando, e dunque sulla realtà della esistenza di una grave minaccia che lei riporta ad Arthur.

Come può Arthur non essere una minaccia e poi diventarlo, se le condizioni riscontrate nell’ambiente reale restano le stesse?

Nelle occasioni in cui Arthur viene riconosciuto come relativamente innocuo, Elizabeth si presenta tonica, serena, sicura di sé, vivace, esibisce un garbato sense of humour, nessuno dei segni e degli indizi distintivi di sofferenza e dolore, a ulteriore riprova del fatto che Elizabeth registra Artur come elemento esistente nel suo perimetro ma non come una minaccia.

Nella comune lettura, fenomeni come questi vengono spesso descritti come sbalzi di umore, poco o per nulla controllabili, se non ricorrendo a farmaci, sperabilmente sotto controllo medico.

Nella lettura sistemica le cose stanno in un altro modo, e per rendere conto e ragione di ciò che comunemente viene visto come una bizzarria, una alterazione della condotta normale, occorre occuparsi più a fondo di chi, o che cosa, è Arthur, e di chi, o che cosa, ha a che fare con Arthur.

Chi, o che cosa sia Arthur, è presto detto: non lo sappiamo, e nessuno può saperlo.

Pur confortati da una enorme quantità di osservazioni, dal genio dei nostri più illustri ricercatori e scienziati, non sappiamo ancora, e forse non sapremo mai, che cosa esattamente sia la materia, che cosa sia il più semplice e banale pezzetto di materia, figuriamoci se ne sappiamo di più su cose così complesse come gli esseri viventi.

In compenso abbiamo un sacco di teorie, di modelli interpretativi, molti di enorme utilità per noi… già, appunto, per noi, utili per noi: la nostra vantata conoscenza, sino ad oggi, e forse per sempre, è “soltanto” l’insieme dei modelli e delle teorie che usiamo per trovare risposte utili per noi, per la nostra specie, per ogni singolo soggetto della nostra specie.

Utili in che senso? Inutile girarci intorno, utile significa sempre e solo ciò che sostiene la nostra sopravvivenza, come specie e come singoli soggetti.

Non abbiamo un modo più efficace, da scienziati, da non-mistici, per costruire, individuare connessioni e dare senso a ciò che siamo e a ciò che ci circonda, se non accogliere la sopravvivenza della specie e del singolo come proprietà costitutiva di tutti i sistemi viventi… i latini ci hanno lasciato il loro “primum vivere”, duecento anni fa Darwin ci ha lasciato il capolavoro noto come “L’evoluzione della specie”.

Modelli e teorie che sono, solo e sempre, modelli e teorie della azione: come per tutti i viventi la “realtà”, indipendentemente dal fatto che sia nota o non nota la sua natura, si costituisce come l’insieme delle azioni che ciascun vivente può dispiegare per averci a che fare, in vista della propria sopravvivenza e, by the way, della sopravvivenza della specie cui appartiene.

Per questo, legittimamente, per noi Arthur è un uomo di affari sulla quarantina, di discreto successo nel mondo occidentale, sposato per quindici anni con una bella donna e padre di due figli, di recente separato legalmente dalla moglie, moglie che ha ottenuto la totale custodia dei figli, attualmente gode della compagnia di un’altra donna e continua a fare il lavoro che faceva prima, ricavandone considerevoli quantità di denaro, plausibilmente soddisfazioni, buoni risultati e riconoscimenti.

Per Elizabeth, Arthur è anche questo, e fin qui lo riconosce come elemento in qualche misura presente nel suo perimetro vitale, privo di connotazioni realmente minacciose: potrebbe renderle la vita più complicata di come è, se non pagasse gli alimenti e non coprisse le spese della famiglia (Elizabeth e i due figli sono, a pieno titolo, legale e di fatto, una famiglia), ma non al punto di mandarla in rovina e costringerla ad accettare una qualità di vita miserabile, no, niente di tutto questo, sarebbe una vita di poco meno agiata, garantita per un tempo molto lungo.

Per Elizabeth, Arthur è anche questo, ma, con sufficiente evidenza, non è solo questo: Arthur-quarantenne-uomo-d’affari-in-giro-per-il-mondo non era e non è una minaccia, l’altro Arthur, con non minore evidenza, lo è, tantissimo.

Cerchiamo allora di vedere chi, o che cosa è, per Elizabeth, quest’altro Arthur, e magari anche per quale Elizabeth.

 

 

Personaggi d’Autore

Passare dalla “cosa”, dal “chi” alle azioni che li costituiscono non è per niente facile, nemmeno per chi, come me, è abbastanza allenato, mi occorre sempre un certo impegno per “switchare” dall’ovvio (e pragmaticamente utile) riscontro di esistenza della “cosa” nell’ambiente reale o in quello virtuale, alla identificazione di almeno alcune delle azioni (per me) salvifiche che costituiscono la cosa.

E naturalmente non è per niente facile per Elizabeth, per quanto sia brillante e vivace la sua mente: il primo tentativo sembra un fallimento totale.

Il suggerimento che mi sono sentito di proporre a Elizabeth era stato, più o meno: Arthur, quello che porti con te, nella tua mente, nella tua memoria,  è fatto anche di “pezzi” che avevi già, possiamo provare a cercare di individuarne qualcuno, per iniziare…

Questo abbrivio aveva funzionato bene in altri casi, da lì erano scaturiti recuperi di “pezzi” di valore, e contavo che sarebbe accaduto anche con Elizabeth: niente.

Elizabeth, perplessa, mi dice che ha provato, ma che Arthur non ha niente, nessun elemento, nessun particolare, nessuna caratteristica che le risulti collegabile a nulla che lei possa riconoscere come “familiare”, come già vista, già sua, precedente al suo incontro con Arthur: in poche parole, Arthur è totalmente nuovo e diverso.

Per la verità alcuni cenni erano già emersi nelle nostre sessioni, cenni che mi avevano indotto a prospettarmi la possibilità che Elizabeth tornasse dalla caccia a mani vuote… e mi ero chiesto, in quel caso, che cosa avremmo potuto fare. Mi era sembrato che forse avrei potuto tentare di procedere chiedendole che cosa, secondo lei, l’avesse spinta, motivata, sostenuta nell’accettare il corteggiamento del giovane aspirante, e poi il fidanzamento e poi il matrimonio…

Forse meglio suggerire di raccontare come era andata, come era stato l’inizio, e poi che cosa l’avesse spinta… insomma, qualcosa del genere.

E quindi, quando arrivò lo sconsolato: ci ho provato, ma non ho trovato niente, proprio niente, non ne fui contento, ma rimasi confidente…

Elizabeth ci tolse dalla panne, aggiungendo: ed è proprio perché non assomigliava a niente che avessi già conosciuto che ne sono stata conquistata.

Fino ad allora, fino a quando non l’ho incontrato, nessuno mi si era opposto in modo convincente, nessuno era stato capace di contenermi, io ero sempre stata la più forte, quella che sapeva tutto e sapeva come fare con tutto, nessuno si era dimostrato più forte di me.
Non potevo affidarmi a loro, a nessuno di loro, più fragili, più deboli, meno capaci di me.

Arthur non somigliava a nulla che avessi già incontrato, e non agiva come gli altri che avevo incontrato… è lì che ho sentito che potevo e volevo affidarmi.

La narrazione di Elizabeth prosegue, ricca e fluida, le servono pochissimi incoraggiamenti, pochissime domande, e un po’ alla volta emergono numerosi elementi collegati ad Arthur, costitutivi di Arthur.

Emergono anche molti elementi che ci aiutano a individuare il profilo dei “personaggi” che, insieme, integrati nel sistema egoico di Elizabeth, costituiscono ciò che nel linguaggio comune è indicato come Io, l’Io di Elizabeth: so bene che il nodo che ho appena toccato è di formidabile complessità, e che il ricorso ai “personaggi” è qui solo un espediente narrativo, torneremo sulla questione in seguito, sapendo che faticheremo non poco per venirne a capo, ma che ce la faremo.

Iron Ldy

Elizabeth Lady di Ferro, fino a pochi anni fa fervente credente, attivista tra le file dei credenti di una religione diffusa nel suo paese di origine, tentata per anni di entrare in uno dei molti ordini religiosi presenti nel suo paese, studentessa modello, conclude nei tempi previsti le scuole superiori ed il percorso universitario, ottime valutazioni sempre, entra con facilità in una grande multinazionale, reclutata quasi a forza, doti e capacità non poi così comuni, a quanto pare.

Molti i corteggiatori freddamente scoraggiati e irrevocabilmente congedati, molte le attenzioni a condursi in modo da non destare tentazioni, ma la sua bellezza e la sua energia sono calamite potenti.

Alcuni tentativi di fidanzamento serio con coetanei, rigorosamente inquadrati nella prospettiva del matrimonio, nessuna concessione erotica, come impone la sua fede religiosa, fidanzamenti anche di lunga durata, poi rotti per sua decisione, i motivi erano stati: troppo poco ambiziosi, poco vivaci, noiosi.

E poi, superati da poco i trent’anni, conquistata la totale autonomia economica, ottenuto il riconoscimento di un ruolo di rilevante responsabilità in una azienda (non la prima in cui è entrata, una seconda grande multinazionale da cui è stata reclutata un paio di anni dopo l’inizio dell’attività professionale), incontra Arthur.

È ancora soltanto un abbozzo, ma iniziamo ad intuire una sorta di disegno che Elizabeth nutre, alimenta, e cerca di realizzare, mettendo in gioco la Lady di Ferro, che conosce, rispetta e fa rispettare le regole giuste, quelle che porteranno al giusto compimento, alla scelta giusta del compagno.

Lady di Ferro è un buon nome, scelto da Elizabeth stessa, per indicare buona parte degli aspetti che hanno caratterizzato, per così dire, lo stile di vita di Elizabeth fino all’incontro con Arthur, è un buon nome per indicare il “personaggio” che integra e facilita il ricorso e l’attivazione di specifici codici neurali, il vasto e complesso plesso sequenza di codici neurali adottati e costruiti da Elizabeth per… per? Per sopravvivere, naturalmente, di cui fa certamente parte l’accoppiarsi.

Il fatto è che la Lady di Ferro, evidentemente, non è in grado di gestire la situazione attuale, Elizabeth è minacciata, il dolore che la tormenta è la prova della reale esistenza di questa minaccia.

La Lady di Ferro non è in grado di proteggere ciò che è minacciato, sembra non conoscere le regole giuste, le azioni giuste: che cosa facciamo?

Che è un’ottima domanda, solo non completa: che cosa facciamo rispetto a che cosa?

Un “che cosa” di cui oggi sappiamo un po’ di più, sappiamo che è stato protetto per lungo tempo dalla Lady di Ferro, che ora si trova in una situazione che non riesce a “gestire”, prova ne è la pena che tormenta Elizabeth.

La dama velata

Per Elizabeth è tutto chiaro: Arthur se n’è andato, e le ha portato via tutto, distrutto tutto, è furiosa e disperata. Che cosa le ha portato via?

La famiglia, innanzitutto, lei ora non ha più la famiglia tenacemente costruita e governata per tre lustri.

Le ha portato via il marito che ha adorato, onorato e servito fedelmente

Le ha portato via il lavoro

Le ha portato via l’accesso ad ambienti prestigiosi, molto ambiti.

Come se non bastasse, ha distrutto il suo onore, dimostrando totale mancanza di rispetto e considerazione, lasciandola per una puttanella da quattro soldi, e cercando di tenere nascosta quella relazione, che lei ha dovuto scoprire ingaggiando un investigatore privato.

Cosa per niente facile, dato che Elizabeth si è trasferita dal paese di origine in un altro continente, e che il marito, per ragioni di lavoro, si trova stabilmente in un altro continente… ma Elizabeth è tenace e determinata, e ci è riuscita lo stesso.

E nonostante tutto questo, il sonno è frequentemente interrotto da bruschi risvegli, e l’immagine che le compare nella mente è Arthur, rivuole il suo Arthur, se solo Arthur glielo chiedesse lo riprenderebbe all’istante.

Di giorno le cose non vanno meglio, quando non è impegnata nella cura dei figli, o in altri compiti, i suoi pensieri tornano incessantemente alla devastazione totale, annichilente, e poi ad Arthur, e a tutta la dolorosa vicenda, e poi di nuovo alla devastazione, e poi ad Arthur…

Va avanti così da mesi, è sfinita, dorme poco e male, mangia poco e in modo irregolare, piange di continuo, a volte si infuria e urla come una pazza con i figli che non si comportano bene, sempre attaccati a quei dannati videogame, trova sporadico sollievo andando a correre, ma dura poco, cercando di praticare qualche sport, ma dura poco, cercando di vedere gente, ma serve a poco… inaspettatamente ha trovato la solidarietà di altre donne, alcune nei suoi stessi guai, altre no, ne è stupita, sino ad allora non aveva mai pensato che le altre donne potessero esserle di conforto… anche questo è di breve e temporaneo sollievo, il tormento ricomincia, la giostra riprende a girare, il carosello è infernale.

E poi il suo fallimento, e già, non poteva mancare anche questo girone, lei ha fallito, ha sbagliato tutto, dall’inizio.

Questo è un racconto che torna e ritorna, è Elizabeth in carne e ossa che lo presenta, io ne sono testimone, come sono testimone del fatto che non è Elizabeth Lady di Ferro che sta raccontando la vicenda, non è difficile immaginare come la racconterebbe, non è difficile immaginare che cosa farebbe: dura, pragmatica, nessuna concessione a nostalgie e malinconie per cose del passato, insomma è di ferro, no? guardare al presente, guardare al futuro… no, decisamente chi racconta non è Iron Lady.

Chi è colei che narra? Lo vedremo in seguito.

Casa

Ci mettiamo parecchio tempo per trovare spiragli attraverso cui cercare di passare per trovare le risposte che ci servono, ma pian piano ci riusciamo.

Arthur è stato scelto perché totalmente diverso rispetto a quello che aveva intorno, in apparenza non c’è nessun collegamento con la sua storia, il suo ambiente… cosa sorprendente, per quel che ne sappiamo di come funziona l’accoppiamento tra soggetti della nostra specie.

E con pazienza iniziano ad emergere alcuni elementi… sì, ha gli occhi dell’identico colore di quelli della nonna…

Che c’entra la nonna?

A quel che ne sappiamo, una delle condizioni che devono essere soddisfatte, imprescindibile, nella scelta del compagno, è che porti con sé almeno un tratto di qualcuno che ci ha aiutato a crescere, che ci ha accompagnato, avuto buona cura di noi, nella prima parte della nostra vita, diciamo nei primi dieci anni, per stare larghi[1].

Bene, sembra che abbiamo trovato un primo riferimento per renderci conto e ragione delle configurazioni dei plessi sequenze di codici neurali che Elizabeth ha sviluppato per “scegliere” Arthur e per costruire il suo Arthur.

Per apprezzare quanto significativo sia questo elemento occorre addentrarci un poco nella storia di Elizabeth… senza mai dimenticare che il nostro scopo, il nostro obiettivo, è di riuscire a cambiare, a generare un cambiamento.

Senza dimenticare per un solo istante che qualunque cambiamento è frutto, effetto collaterale di un apprendimento, e che la sostanza di qualunque apprendimento umano coincide con la modifica, l’integrazione, lo sviluppo dei codici neurali che guidano e sostengono ogni nostra azione.

E ben sapendo, per ripetuta e coerente esperienza, che possiamo modificare intenzionalmente la configurazione di plessi sequenze di codici neurali a condizione (necessaria e non sufficiente) che riusciamo a collocare nella storia reale, o almeno molto plausibile, quando, e per quali motivi, con quali benefici, quel codice è stato sviluppato: a maggior ragione è importante riuscire a svolgere bene questo tipo di ricostruzione[2].

Elizabeth ha vissuto continuativamente con la nonna per i primi undici anni della sua vita, nella casa della nonna, mentre la mamma ed il papà abitavano e vivevano in un piccolo appartamento ricavato all’interno della piccola struttura che ospitava i macchinari e il personale dedicati alla produzione di piccole serie di manufatti meccanici di precisione, a pochi chilometri di distanza.

Papà e mamma venivano dalla nonna a cena, e poi tornavano alla fabbrica, Elizabeth restava con la nonna.

Mamma lavorava con papà, dava una mano con l’amministrazione, fornitori, clienti, banche, mentre papà era costantemente impegnato nella produzione.

Papà era una persona semplice, un tecnico che aveva raggiunto il diploma di scuola professionale lavorando e seguendo corsi serali, e che, dopo alcuni anni di lavoro come dipendente di una media azienda operante nel settore della meccanica di precisione, aveva deciso di tentare la strada imprenditoriale, forte del diploma conseguito e della competenza specifica acquisita lavorando mentre studiava.

Mamma aveva conseguito un diploma di scuola professionale, per poi immediatamente trovare impiego in uno studio di commercialisti… aveva talento nel disegno, cosa che le permetteva di spendere il poco tempo libero in quella attività, accettata dalla comunità e dalla famiglia di appartenenza… comunità sorta secoli addietro all’interno di una piccola valle di una regione montana, la stessa cui apparteneva papà.

A papà piaceva la bicicletta, non aveva tempo per allenarsi, ma per Elizabeth erano stati momenti di pura felicità quelli in cui, da piccola, la sola domenica, veniva messa sul seggiolino agganciato al manubrio, e papà vigorosamente pedalava lungo la strada che andava dalla casa della nonna alla fabbrica, e poi il ritorno, strada di cui ricorda ogni singolo metro ancora oggi.

Gli occhi della nonna, in quel quadro, portano significati importanti, anche per chi, come noi, ha poca immaginazione: Elizabeth, di fatto, è data in adozione alla nonna, che si occupa di lei, come sa e come può, papi e mami non ci sono, se non per brevissimi momenti.

E poi, non bastasse, papi muore, carcinoma, Elizabeth ha cinque anni, e un fratellino di due anni più piccolo di lei.

Anche lui dato in adozione alla nonna, mentre mami continua a vivere in fabbrica anche dopo la morte del marito… dopo un paio di anni mamma trova un compagno, un artista, proprio del tipo genio e sregolatezza, che vive con lei in fabbrica, continuando nella sua attività artistica, senza mai arrivare a successi significativi, mami continua con la spola quotidiana tra fabbrica e casa della nonna, Elizabeth ed il fratellino restano con la nonna.

Mamma decide che è tempo che i figli vivano con lei ed il compagno, Elizabeth ha undici anni, si avvia a diventare signorina, forse la nonna è stanca, e vengono allocati, lei ed il fratellino in una specie di cuccia ricavata nella parte della stanza che funge da studio per il compagno della mamma… la soluzione non è delle migliori, così l’abitazione viene ampliata, rubando spazio al capannone, ma non è più un problema, intanto l’azienda si è sviluppata, occupa ora duemila metri quadrati, ricavare due stanze  in più è relativamente facile.

Così Elizabeth ha la sua camera, tutta sua, e non dorme più nella cuccia con i piedi del fratellino sulla pancia… storia non male eh?, ma vuoi che siamo così fortunati che il compagno artista della mamma, vedendo sbocciare questo fiore, non provi a coglierlo?

Non siamo fortunati, le cosiddette “molestie” arrivano, di nascosto a mammà, naturalmente, Elizabeth si sottrae e non apre bocca, non sarebbe creduta, mammà non si accorge di niente, la cosa va avanti qualche anno, e quando Elizabeth capisce che non le sarà possibile continuare a sottrarsi perché sempre più frequenti ed energiche sono le “provocazioni”, allora spiattella tutto a mammà, che immediatamente chiama a colloquio un suo amico, alto ufficiale di polizia, ed il compagno artista… bastano trenta minuti, dopodichè l’artista pittore si trova al cancello con una valigia, mentre a passo spedito si allontana per non tornare mai più.

Senza questa storia ci sarebbe molto più difficile intendere che gli occhi azzurri di Arthur, proprio come quelli della nonna, per Elizabeth sono di enorme valore, sono casa, sono la casa, piccola, brutta, senza spazi per i bambini, ma casa, dove la nonna fa quel che può, per cultura e per età, non è un granchè, non ha vissuto una infanzia “normale”, mammà bada al sodo, agli affari, e agli affari suoi, la narrazione si arricchisce durante i nostri incontri, particolari e dettagli, frammenti dolenti e dolorosi, Elizabeth li presenta con scioltezza, mezzi sorrisi, nonchalante, io sento la corrente di emozioni che scorre sotto, leggo la complessa costruzione che plausibilmente regge quelle narrazioni lievi… e so che per Elizabeth quell’azzurro è casa, so, da tempo che ciascuno di noi, a casa, fa ritorno ogni giorno, appena può.

Il tema “casa” è molto complesso, la parte muraria ed impiantistica è un puro dettaglio di importanza assai relativa, lo riprenderemo in seguito.

E troviamo indizi solidi che convergono su almeno un altro elemento chiave, chiave sia della costruzione dei codici di Elizabeth sia della scelta del compagno: ed è Elizabeth stessa ad averla nominata, tra i motivi del rifiuto dei fidanzati precedenti, già, l’ambizione.

Il papà è ambizioso, alcune foto che Elizabeth mi ha mostrato lo ritraggono sorridente, forte, pieno di energia, stroncato in poche settimane… e maman? Maman Iron Lady no? è lei a continuare il progetto, è lei a non mollare un secondo, è lei a tenere i figli dalla nonna, soluzione pratica, molto pratica, è lei a tenersi un artista fallito in casa invece di fare posto ai figli, è lei a curare e riuscire, certo non da sola, in azienda ha trovato spalle e teste buone cui appoggiarsi, ma lei è lì, dall’alba al tramonto, e anche dopo…

Per Elizabeth, tutto questo, anche tutto questo è casa, non è affatto strano che lei stia con la nonna… inizia a diventarlo in seguito, ma questo è un altro pezzo di storia, ora siamo in caccia di Arthur, di chi è Arthur, in e per Elizabeth.

Arthur

Arthur ha gli occhi della nonna.

E Arthur non è solo ambizioso, è molto più che ambizioso, ai limiti del delirio.

Ed è più giovane di lei.

Ed è vivace e pieno di idee.

È di famiglia decisamente benestante, e ha successo, nello sport, all’università, nel lavoro, che inizia appena finita l’università,  è considerato un alto potenziale, e come tale inserito nei percorsi di sviluppo dedicati ai talenti d’impresa della stessa grande multinazionale in cui lavora Elizabeth.

Lì si conoscono, Arthur la corteggia in modo serrato, Elizabeth inizialmente si oppone, lo scoraggia, ma non troppo… ammette dopo un po’ che aveva da tempo iniziato a preoccuparsi, passata la trentina, scartati quattro fidanzati… oppone che lui è più giovane, sei anni di differenza, che lei è più grande, che chiede di più, che è in una posizione aziendale delicata, ma lui resiste e continua il corteggiamento…

Ed Elizabeth cede, e lui è magnifico, trova il modo di portarla a Parigi, Londra, Roma, New York, Tokjo, Mosca, Buenos Aires, Vienna, al castello incantato austriaco cui si ispira Walt Disney…

Ecco, la Principessa ha trovato casa, Arthur è casa.

 

 

Che cosa manca

Tutto qui? Casa sono gli occhi cerulei della nonna e l’ambizione di papà e mamma? Arthur è stato accettato perché aveva gli occhi azzurri ed era ambizioso? Non si vede ancora come, il fatto che ora stia con un’altra donna e sia diventato ex-marito, sia una minaccia per Elizabeth.

Me l’aveva promesso, ancora qualche anno di lavoro, dieci, e poi ci saremmo goduti insieme il frutto dei grandi sforzi e grandi sacrifici fatti in tutti questi anni, avremmo finito di accompagnare i bambini alla loro vita di adulti, avremmo viaggiato, ci saremmo tenuti compagnia nella vecchiaia.

Quando Arthur, otto anni prima, decise di cogliere una formidabile opportunità professionale, si scatenò l’inferno: a quel tempo vivevano negli USA, si erano trasferiti là da qualche anno, Arthur aveva fatto un bel pezzo di carriera, e l’azienda lo aveva spedito là, Elizabeth aveva fatto in modo di ottenere che spostassero anche lei negli USA, entrambi lavoravano tantissimo, presto arrivò il primo figlio, poi il secondo, Elizabeth si era stufata di fare il lavoro che faceva, le veniva la nausea al pensiero di dover tornare ogni mattina in ufficio e fare quel che il suo ruolo richiedeva.

E così decisero che Elizabeth avrebbe lasciato il lavoro, anche per poter meglio star dietro ai bambini, vivacissimi, e avrebbe aiutato Arthur come prima, come consigliera personale.

Il ruolo di Arthur era estremamente impegnativo, giovanissimo, con responsabilità crescenti, responsabilità che lui stesso andava a cercarsi, inanellando un successo dietro l’altro, certo per abilità, ma anche per discreti colpi di fortuna, quasi tutti i giorni tornava a casa, in famiglia.

E poi, sette anni dopo il matrimonio, due bimbi ancora piccoli a casa, arriva la svolta intensamente desiderata e cercata, formidabile, Arthur è eccitatissimo, Elizabeth distrutta.

Sì, l’opportunità è formidabile, ancora frutto di abilità e una discreta dose di fortuna, ma Arthur dovrà trasferirsi in un altro continente, nell’emisfero opposto,  e questo ad Elizabeth non va per niente bene: con i bimbi piccoli, la destinazione di Arthur è incompatibile, le condizioni ambientali laggiù sono rischiose per loro, l’educazione che dovranno ricevere laggiù è impossibile.

Sono settimane d’inferno, Elizabeth si oppone, ma Arthur è irremovibile, Elizabeth va fuori di testa, deve ricorrere ai farmaci e ad un aiuto psicologico, sta malissimo. Dopo infinite discussioni, liti furibonde in cui Elizabeth, anche fisicamente, aggredisce Arthur, pianti disperati, notti insonni, giungono ad un accordo: Arthur partirà,  Elizabeth e i bimbi si trasferiranno in un continente “vicino” a quello di destinazione di Arthur, dove condizioni ambientali e di cultura sono compatibili con la necessità di proteggere e favorire la crescita dei bambini, Arthur tornerà a casa il più spesso possibile.

Se non lo avessi lasciato partire tutto questo non sarebbe successo, è il ritornello che per parecchie sessioni torna e ritorna nei racconti di Elizabeth.

Arthur parte, e da allora, così racconta Elizabeth, lei è da sola. Da allora lei è la consigliera segreta di Arthur, partecipa segretamente alle riunioni, e poi discutono a lungo, Arthur non ha l’abilità di leggere facilmente i plot, gli schemi di comportamento di chi ha intorno, lei sì, lui la chiama la sua maga, ci azzecca spesso, internet e lo smartphone addolciscono la separazione forzata e la solitudine, ma lei è là, con i bambini, da sola, mentre Arthur è altrove.

Fatica a resistere, ma resiste, per otto anni vanno avanti così, mentre Arthur continua la sua ascesa, fanno soldi, tanti, investono con oculatezza, comprano una bellissima casa in Spagna, per le loro vacanze, dove Elizabeth e i bambini vanno ogni anno per lunghi periodi, dove Arthur li raggiunge quando può.

Me l’aveva promesso, ancora qualche anno di lavoro, dieci, e poi ci saremmo goduti insieme il frutto dei grandi sforzi e grandi sacrifici fatti in tutti questi anni, avremmo finito di accompagnare i bambini alla loro vita di adulti, avremmo viaggiato, ci saremmo tenuti compagnia nella vecchiaia, aveva tutto e ha buttato via tutto, per una sgualdrinella che gli sta dietro per mungerlo, e lui non capisce niente, porco egoista.

Ambienti virtuali

Così come l’ambiente reale altro non è che l’insieme delle azioni che possiamo eseguire per averci a che fare, l’insieme dei codici neurali, dei neurogrammi e dei riflessi di cui disponiamo che guidano le azioni che eseguiamo per averci a che fare, gli ambienti virtuali, elementi della nostra mente, impenetrabile come lo è la nostra scatola cranica, che usiamo continuamente per mettere a punto le migliori azioni possibili da dispiegare in vista della nostra sopravvivenza, sono il dispiegamento dei codici neurali, dei neurogrammi che guidano le nostre azioni cui manca solamente l’innesco della scarica motoria.

Gli ambienti virtuali non sono una “copia” degli ambienti reali, sono reali quanto gli ambienti reali, poiché con piena evidenza sono costituiti dal dispiegarsi dei nostri codici neurali… qui rischiamo un poco di confusione, meglio procedere a piccoli passi: così come, per noi umani, esistono gli ambienti reali, quelli che riduttivamente indichiamo, nel linguaggio comune, come realtà, esistono anche gli ambienti virtuali, a cui vengono dati altri nomi, fantasia, immaginazione, mondo interno.

Entrambi questi tipi di ambienti sono reali, nel senso che per noi esistono, sono ambienti diversi, ma non per questo uno è più reale dell’altro, di queste differenze teniamo conto, “usandoli”, avendoci a che fare in modo diverso, in modo correlato alle differenze che conosciamo.

Diversità che per noi è solitamente ben presente e chiara durante il nostro periodo di veglia, e che quasi scompare durante il sonno, durante il quale abbiamo a che fare con i soli ambienti virtuali: di quello che “ci accade” in questa interazione con i nostri ambienti virtuali a volte conserviamo qualche traccia, qualche pezzetto, qualche spezzone, riusciamo a descrivere frammenti che chiamiamo comunemente sogni.

E tutti abbiamo vissuto l’esperienza della sconvolgente concretezza dei nostri sogni, indistinguibili per lunghi tratti da quello che, durante la veglia, è il nostro fare esperienza della interazione con elementi dell’ambiente reale.

Risulta di aiuto considerare i sogni, i frammenti che riusciamo a riferire da svegli delle nostre avventure da addormentati, come indizi o prove (e per me sono certamente prove) del nostro incessante lavoro di ricerca di una soluzione a questioni, a problemi che non siamo ancora riusciti a risolvere in modo soddisfacente, evitando accuratamente di prenderli per predizioni, o pure farneticazioni prive di senso.

Non risulta di aiuto considerarli come modi per esaudire desideri, i quali sono le forme che prendono i nostri bisogni, necessità vitali che chiedono adeguate risposte, meglio limitarsi a considerarli come indizi, tracce, o prove della nostra ricerca di soluzioni, soluzioni che poi potranno o dovranno essere messe alla prova nella nostra interazione con gli ambienti reali.

Questa nostra meravigliosa e straordinaria proprietà sistemica, che descrivo, semplificando per ragioni espositive, come di simultaneo accesso alla interazione con gli ambienti reali e con gli ambienti virtuali, ci permette di ricorrere alle “istruzioni” che abbiamo costruito negli ambienti virtuali per guidare azioni di elevatissima precisione mentre siamo in interazione con gli ambienti reali, ci permette di disporre di un pressoché infinito laboratorio “virtuale” in cui costruire qualunque cosa, prefigurare qualunque risultato, condurre esperimenti, valutare probabilità di successo: che questo sia frutto di una lunga, lunghissima storia evolutiva, non può essere messo in dubbio, che questa proprietà del sistema vivente umano sia emersa, “costruita” e stabilizzata attraverso innumerevoli tentativi per innumerevoli generazioni, e poi giunta fino a noi, diligentemente e stabilmente consegnata a ciascuno di noi attraverso la doppia elica del nostro DNA, è per me la più straordinaria meraviglia dell’universo.

Allineamento e conferma

Di questa straordinaria meraviglia è parte integrata ed integrante anche un complesso dispositivo di controllo e protezione di buon funzionamento: tra i due diversi ambienti, per il successo delle nostre operazioni, finalizzate alla nostra sopravvivenza, è necessario che vi sia almeno similarità, se non perfetto allineamento, il grado di sintonia e distonia tra i due è costantemente monitorato.

Questo dispositivo di controllo, come ogni altro dispositivo di controllo di cui disponiamo (e ne abbiamo una quantità ragguardevole) è naturalmente connesso al sistema di allarme ed al sistema di conferma di buon funzionamento, più propriamente, rispettivamente il sistema nocicettivo ed il sistema proficettivo.

Se gli ambienti sono disallineati, il sistema nocicettivo puntualmente lo segnala, graduando la potenza del segnale principalmente, ma non solo, in funzione della minacciosità stimata come correlata al grado di disallineamento: il segnale, inconfondibile, è ciò che noi chiamiamo dolore, particolare configurazione che assume quell’elemento dell’ambiente reale che è il nostro corpo.

Per quali motivi il disallineamento tra ambienti reali e ambienti virtuali sia “classificato” come minaccia, di maggiore o minore gravità, non sembra presentare particolari difficoltà di comprensione: o l’ambiente reale non ha ancora raggiunto la configurazione indicata nei nostri ambienti virtuali, per definizione quella che riconosciamo come di supporto alla nostra sopravvivenza, e occorre fare qualcosa, oppure stiamo “usando” ambienti virtuali e codici non appropriati per avere a che fare con l’attuale configurazione di ambienti reali, e più che mai occorre fare qualcosa.

La concomitante “spinta” alla azione che in quei casi sperimentiamo è una correlata e nota specifica configurazione che assume quell’elemento dell’ambiente reale che è il nostro corpo, con maggiore o minore urgenza destinata a sostenere l’esecuzione delle azioni salvifiche, cioè esattamente quelle che ottengono l’effetto di allineare gli ambienti, il raggiungimento del quale effetto è puntualmente segnalato dal sistema proficettivo: il segnale, inconfondibile, è il piacere, con grado di intensità correlato principalmente, ma non solo, al livello di allineamento ottenuto.

Ecco, questo lavoro, per ciascuno di noi, è incessante, da svegli o mentre dormiamo, non conosce soste, pause, o è azione diretta di governo della interazione con gli ambienti reali, o è azione di preparazione svolta nei nostri laboratori virtuali, che conseguono incessantemente l’allineamento degli ambienti reali e virtuali e, con questo, le condizioni per la nostra sopravvivenza.

Elizabeth per otto anni vive, a suo dire, da sola.

Dato che i bambini sono costantemente con lei, tanto da sola non è, man mano che la loro fortuna economica aumenta, altre persone sono in giro per casa, e poi c’è il quotidiano, diuturno impegno di consigliera, di maga del marito lontano, di quale solitudine si tratta, allora?

Gli occhi azzurri della nonna sono la nonna, e la nonna è l’insieme delle sapienze, dei codici, dei neurogrammi sviluppati per averci a che fare, e anche l’insieme dei codici clonati, copiati, costruiti in sua compagnia, codici da usare per avere a che fare con un sacco di cose, dall’igiene al cibo, dall’ordine delle cose di casa al magnifico dolce che la nonna preparava per lei e solo per lei nel giorno del suo compleanno, dal tempo del gioco al tempo dei compiti, e molto molto altro ancora.

Lo stesso per mamma, sono i codici per averci a che fare e i codici di come-si-fa-per un sacco di cose, come ci si veste, come ci si comporta con gli sconosciuti, come ci si comporta con il denaro, con il lavoro, certo, appena possibile anche Elizabeth dava una mano in azienda.

Codici clonati, copiati, costruiti per tentativi ed errori che abbiamo impiegato più e più volte con successo, prova ne è che siamo sopravvissuti.

Plessi sequenze di codici neurali integrati in “personaggi” per facilitare e velocizzare l’attivazione e l’esecuzione: la rapidità di esecuzione è un fattore chiave per la buona riuscita della nostra interazione con gli ambienti reali.

Personaggi che vanno presi come un modo per indicare l’integrazione di gruppi e possibili raggruppamenti di plessi sequenze di neurogrammi, e che si costituiscono come elementi stabili del nostro sistema egoico, letteralmente parti di noi, non molto meno nostre e “concrete” di quanto lo siano le nostre membra.

Personaggi che possono facilmente costituirsi come elementi dei nostri ambienti virtuali, e come tali richiedere imperiosamente l’allineamento con gli ambienti reali, la cui possibilità o impossibilità di esecuzione è associata, correlata a soddisfazione o dispiacere.

E infine, per ciascuno di noi, questi personaggi, letteralmente, sono casa: è con loro che abbiamo “costruito” la nostra casa, il nostro riparo, il nostro rifugio, il nostro luogo sicuro, e questa casa, adattata, modificata, ma riconoscibilmente la nostra casa, è quella che è letteralmente in noi, e resta in noi e con noi ovunque siamo, e ogni giorno richiede imperiosamente allineamento.

E Arthur?

Fin qui, Arthur è riconoscibilmente costituito da numerosi codici antichi di Elizabeth, da quelli sviluppati per averci a che fare, e da quelli clonati, copiati e sviluppati con Arthur, ad esempio quelli relativi alle logiche di gestione degli investimenti, che Elizabeth più volte riconosce di aver appreso da Arthur, troviamo anche altro, lo vedremo in seguito, ma per il momento può bastare questo per vedere Arthur non, come un tempo si diceva, un semplice pilastro della casa di Elizabeth, ma come l’intera casa di Elizabeth.

Comprendiamo meglio l’intensa felicità di Elizabeth, quella che esprime nelle nostre conversazioni quando racconta gli inizi della vicenda, quando afferma “appartenevo a lui”, in sé affermazione che rovescia il senso di ciò che abbiamo visto sin qui, come uno specchio, ma che fedelmente riporta il giubilo per essere riuscita ad allineare ciò che fino ad allora era stato impossibile allineare.

Comprendiamo meglio la forza, la violenza della reazione di Elizabeth avversa alla decisione di Arthur di partire.

Arthur non è un simbolo, non è portatore di semplici segni noti di buone cose antiche, è quelle cose, è fatto di quelle cose, di quei codici che sono nella carne e nel sangue di Elizabeth, è finalmente casa.

La distanza fisica, migliaia di chilometri, gli incontri diradati, per otto anni impediscono ad Elizabeth di fare ciò che faceva prima, ogni giorno, allineare i mondi e ottenere conferme, la costringono a limitarsi ad ottenere allineamento e conferma attraverso i quotidiani collegamenti in rete, non basta, ma meglio che niente.

Facile vedere in questo un pezzo della sua storia, mamma che aiuta papà mantenendo un ruolo importante ma di minore visibilità, e anche questo è un pezzo di casa, ricostruito sin dall’inizio della relazione con Arthur, un pezzo di casa che viene allineato ogni giorno.

E il resto? Come riesce Elizabeth a trovare relativa pace un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, per otto anni?

La risposta è in parte nella violenta recriminazione di Elizabeth: me l’aveva promesso, ancora qualche anno di lavoro, dieci, e poi ci saremmo goduti insieme il frutto dei grandi sforzi e grandi sacrifici fatti in tutti questi anni, avremmo finito di accompagnare i bambini alla loro vita di adulti, avremmo viaggiato, ci saremmo tenuti compagnia nella vecchiaia.

Nel linguaggio comune potremmo dire che Elizabeth, per otto anni, si è raccontata ogni giorno, più volte al giorno, questa storia, in sistemichese questa narrazione è l’effetto collaterale della attivazione di specifici plessi sequenze di neurogrammi che costituiscono specifici ambienti virtuali il cui allineamento è legittimamente rinviato, producendo soddisfazione.

La granitica convinzione che così sarebbe stato è l’effetto collaterale di un allineamento futuro ripetuto infinite volte, operazione che per Elizabeth si è costituita come antidoto e rimedio di pronto impiego utilizzabile in tutti i casi di disallineamento di Arthur, non solo durante i lunghi periodi di separazione fisica, ma anche, plausibilmente, a fronte della “svogliatezza” di Arthur verso i rapporti sociali, quando tornava fisicamente a casa, e verso i rapporti coniugali.

Antidoto che ha funzionato egregiamente, o quasi, fino al giorno in cui Elizabeth decide di ingaggiare un investigatore per ottenere le prove di quello che sa già.

 

Regina Elizabeth

Non lo so più cosa potrà accadere … come può l’amore fare così male… non é amore, o amare non è quello che ho fatto, era solo nutrire la bambina che ora ha ancora più fame di prima …

Iron Lady-mamma, Badiamo Al Sodo-nonna, Antiope distruttrice e omicida, la Principessa-bimba sono alcuni dei personaggi individuati, e poi, a poco a poco, finalmente, la Regina Elizabeth diventa sempre più riconoscibile, sempre più capace di governare le difficili e complesse interazioni con difficili configurazioni di ambienti reali, Arthur, Ethan, Frederick, mamma, amici, corteggiatori, amiche, nuove conoscenze che possono aprire opportunità.

È la Regina Elizabeth che rilegge ora, con me, alcuni aspetti della complessa relazione con Arthur: sì, Arthur diceva di avere le mie stesse priorità, sopra ad ogni cosa la famiglia, tutto il resto viene dopo, ma non è mai stato vero, per lui sopra ogni cosa c’era e c’è il successo, l’affermazione, il riconoscimento sociale, il potere, il rango.

Ed io gli sono servita per conquistare la posizione che ora ha raggiunto, e non gli servo più per conquistare la prossima che ha in mente, la sua nuova compagna può aprirgli la strada, fa parte di una casta che dispone di quegli accessi… non gli servo più, probabilmente.

Io volevo la famiglia, la mia famiglia, quella che non ho avuto.

La Principessa-bimba ha dovuto affrontare molteplici abbandoni, dalla nascita, e sopravvivere: in ogni cellula del nostro corpo c’è la sapienza della estrema pericolosità dell’essere abbandonati, scritta nel nostro DNA, c’è l’istruzione dello stare con i nostri simili, c’è l’istruzione del suggere il capezzolo, dell’urlo al presentarsi del dolore, che richiama chi ha cura di noi, una serie imponente di conoscenze pratiche, che non richiedono alcuna coscienza, alcuna consapevolezza, alcuno studio, conoscenze vitali.

C’è da meravigliarsi che Elizabeth non abbia sviluppato quello che comunemente viene chiamato gigantesco complesso di colpa, o senso di colpa, soluzione privilegiata per tutti i casi in cui gli allineamenti non riescono, molto plausibilmente anche questo un dispositivo di protezione del nostro complesso funzionamento, geneticamente ereditato: nelle nostre conversazioni giurerei che non sono emerse prove significative.

Senso di colpa che è stato osservato manifestarsi apertamente nella stragrande maggioranza dei bambini che subiscono la separazione da uno dei due genitori: se papà se n’è andato, se mamma se n’è andata è colpa mia, una colpa priva di contenuti, di riscontri “reali”, nel linguaggio comune contenuti immaginari, inventati.

Non importa se se ne va per necessità di lavoro, per risoluzione del contratto matrimoniale, per morte, o per qualunque altro immaginabile motivo: la bimba ha a che fare con l’abbandono, nel nostro caso più di uno, potremmo dire crudamente e crudelmente ripetuto, non importa se razionalizzato con la veste delle necessità della vita, e ha dovuto trovare il modo per far quadrare il compito ineludibile di allineare i mondi, reali e virtuali, individuando e verificando le connessioni tra gli elementi del proprio vivere, nel linguaggio comune dando senso a ciò che accade.

Frederick da tempo, da molto prima della separazione dei genitori, fornisce ampie prove della sua intima convinzione che se il papà non c’è, se se n’è andato, è per colpa sua; Ethan non deve fare alcuna fatica per trovare le prove che se papà non è con loro, beh, la colpa è tutta sua, dato che papà non perdeva mai l’occasione per sottolineare che Ethan non era all’altezza delle sue aspettative.

La principessa svelata

Elizabeth bimba, la Principessa, come se l’è cavata?

I ricordi sono pochi, per la maggior parte vaghi, come è naturale che sia, date le periodiche “potature neurali” che ciascuno di noi subisce, la nonna vive in un piccolo paese, la sua casa è vicino alla scuola, e bene presto Elizabeth va e torna da scuola da sola, e poi?

E poi sta con la nonna, e la zia, che badano a lei sì e no, per i compiti si deve arrangiare, più o meno li fa… e il gioco? Ah sì, c’era un cugino che viveva lì vicino, più grande di lei, e un altro bambino, due maschi, e poi il fratellino, che però era piccolo e non poteva fare i loro giochi… a volte venivano nel cortile della nonna, loro facevano giochi da maschio, anche lei, la lotta, la guerra, una volta il cugino con un’arco improvvisato tirò una freccia incendiaria in una specie di magazzino poco distante, per poco non appicca un incendio…

E poi? E poi niente… mi annoiavo molto… non potevo andare dalle amiche, anche se abitavano lì vicino, loro non potevano venire dalla nonna, e poi, quando mi trasferii da mamma, non potevo invitare nessuno, mamma diceva di non invitare nessuno, mai, lei non aveva tempo per badarci… una volta sono stata da una compagna di scuola, per me fu molto strano, la loro casa non somigliava per niente alla mia, la sua famiglia non somigliava per niente alla mia.

Ah sì, prima di cena c’erano i cartoni animati, heidi, lady oscar, sfigatissime, mi piaceva lady oscar, la sapevo tutta a memoria.

A scuola? All’inizio si erano preoccupati, perché quando un bambino mi dava fastidio mi toglievo una scarpa e gliela tiravo… mia mamma non veniva mai, ma sapeva tutto perché la mia maestra era una sua amica, le telefonava spesso per sapere come andavo, questo l’ho saputo molto dopo.

Il mio rifugio preferito era l’armadio, mica andavo dalla nonna per essere consolata, mi chiudevo dentro l’armadio, e stavo lì, al buio, da sola.

Elizabeth voleva una famiglia, la sua famiglia, quella che non aveva avuto, con un papà e una mamma che non abbandonano i figli, ma ne hanno cura, Elizabeth voleva essere amata, compresa, capita, rispettata, onorata e mai, mai mai più abbandonata.

Passo passo ricostruiamo insieme questo disegno, quello che la Principessa incessantemente alimenta, la casa, la casa interna, resta sullo sfondo, ma il disegno necessariamente la include, arriva il primo fidanzato, noioso, non apprezzante, sembrava capire, nessuna ambizione, via, arriva il secondo, un semplice, innamorato pazzo, bene, apprezzantissimo, meno male, ma non capisce, ambizione zero, via, poi il terzo, più sveglio e acculturato del precedente, molto apprezzante, ma noioso, dio che noioso, e poi, nessuna ambizione… via anche lui.

Poi arriva Arthur, perfetto, il fatto che sia più giovane presenta pericoli, si sa, le femmine invecchiano prima, in compenso rischia meno di scomparire per morte, e poi lei la sa più lunga, non è del tutto in balia… come? Anche per lui la famiglia è al primo posto?

E il gioco è fatto, Principessa è finalmente felice, ha resistito per decenni, e finalmente ha trovato il suo Principe, finale di una fiaba che nessuno le ha mai raccontato, di certo non la nonna, lasciamo stare la zia, buona come il pane ma inemendabilmente stupida, di certo non la mamma, il gioco più bello con la mamma era fare la lotta, e poi fare shopping per abbigliarsi come-si-deve, per il resto aveva da lavorare, sempre.

Ed Elizabeth, un po’ triste e malinconica, ma con gli occhi asciutti ed una tenerezza che mi tocca a migliaia di chilometri di distanza, mi dice: e io ci  ho creduto, potevo forse fare altro?

Regina Elizabeth sa

Regina Elizabeth è capace di fare ciò che nessuno degli altri personaggi è in grado di fare: è in grado di riconoscere il disegno, il disegno che è stato nutrito con la paura ed il dolore degli abbandoni, dell’affido alla nonna, della diversità, della solitudine, della mancanza di compagnia, solo dopo i quattordici anni le verrà imposto e permesso di far parte degli scout della città vicina, a fronte della eccessiva solitudine, dell’eccessivo ritiro dai rapporti sociali notato da una amica della mamma, disegno che ha mantenuto la travatura della "casa”, e ha via via integrato il rispetto delle severe regole religiose del milieu in cui è cresciuta, è in grado di riconoscere che ha arruolato Arthur poiché perfetto compimento del disegno cui mancava un pezzo fondamentale, non proprio falsificando il suo passaporto, ma mettendo sullo sfondo e un po’ nella nebbia tutti i tratti che sin dall’inizio indicavano che il disegno di Arthur non era proprio come il suo.

Regina Elizabeth è in grado di riconoscere e ricostruire la sua intera storia, di riconoscere che per tutto il tempo, e non solo durante gli otto anni di lontananza precedente la separazione, ha continuato ad alimentare, giorno dopo giorno, il grande disegno della Principessa, è in grado di riconoscere e accettare che l’interesse erotico di Arthur verso di lei si è rapidamente intiepidito, oh sì, c’era sempre tantissimo da fare, tantissimo da lavorare, e poi Arthur adorava spendere parte del suo tempo libero in attività sportive che la escludevano.

Regina Elizabeth è in grado di riconoscere che anche il suo desiderio erotico verso Arthur era più frutto del rispetto della regola al-marito-tutto-è-concesso che non orgoglioso fiore del suo corpo, più sostenuto dalla necessità di allineare il disegno della famiglia perfetta, in cui vi è perfetta intesa tra marito e moglie anche sotto le lenzuola, che non dalla spontanea necessità di placare la fame della vita con il compagno amato.

Regina Elizabeth sa che i suoi bambini sono i suoi bambini interni, parti di sé, e che è bene non confonderli con i suoi ragazzi, poiché sono ragazzi, e non più bambini, e con i ragazzi non è bene averci a che fare come se fossero quel che non sono più, certo non ancora adulti, ma certissimamente non più bambini, compito non facile, rispetto a cui il repertorio della nonna e della mamma risulta pressoché totalmente inutilizzabile.

Regina Elizabeth sa che i suoi ragazzi patiscono un po’ della separazione, patiscono del fatto che il papà non è più in casa con loro, pochi dei loro amici sono in una situazione simile alla loro, la maggioranza hanno famiglie “regolari”, ma dato che già da anni papà c’era di rado, in fondo la cosa non cambia poi tanto, il piano direbbe che comunque passeranno tempo con lui, fine settimana alternati e parte delle vacanze, un classico.

Regina Elizabeth sa che i suoi ragazzi sono molto spaventati dai suoi “sbalzi di umore”, sa che non si tratta di sbalzi di umore, ma che sulla scena si presentano prevalentemente la Principessa ferita, piangente e furiosa, e poi Antiope la devastatrice, e poi Iron Lady, con tutte le sue regole di ferro da rispettare, che li chiama sempre “amore” ed un secondo dopo scatta come una tigre se le cose non sono come vuole lei.

Regina Elizabeth sa che i ragazzi l’hanno vista poco, e che nonostante il grande disegno della Principessa preveda che i bambini non vengano mai mai mai abbandonati, essi sono stati prevalentemente abbandonati e lasciati soli: papà non solo, comunque, per la maggior parte del tempo lontano, ma quando c’è spesso deluso da Ethan e spesso rissoso con Frederick (ovviamente anche Arthur ha il suo grande disegno), mamma dedicata a renderli bambini perfetti nel suo disegno perfetto, ad allineare i bambini reali ai bambini del disegno perfetto, con questo finendo per ignorarli,  per non tenere in gran conto chi e che cosa essi siano, esprimendo soddisfazione e amore quando le riesce l’allineamento, e disappunto, aspro rimprovero o silente indifferenza e rigetto quando il dannato allineamento non le riesce.

Regina Elizabeth sa che i suoi ragazzi hanno tutte le ragioni per avercela con la loro mamma, per quello che si è prevalentemente mostrata per tutto il tempo del matrimonio perfetto, che conquistare la loro fiducia, diventare, per loro e in loro, mamma-che-aiuta,  non sarà cosa facile, ma vale la pena provarci, e che ci sono possibilità di riuscita.

Regina Elizabeth sa che, più che diritti, per lei sono necessità vitali, essere capita, essere compresa, essere apprezzata, essere amata, sa che l’abbandono e la solitudine patiti dalla principessa non sono solo quelli “reali”, papà e mamma che fisicamente non ci sono, papà che muore giovane, ma sono anche quelli, ancora più feroci e annichilenti, patiti in presenza, quando non si è compresi, capiti, apprezzati, amati.

Ciascuno di questi aspetti ha ragioni e radici possenti, che attraverso la sistemica è possibile individuare e intendere, di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo, restiamo ancora un poco in compagnia della Regina Elizabeth: ella sa che niente e nessuno può garantire a nessun vivente che non sarà mai abbandonato, che non esiste contratto o polizza assicurativa capace di schermarci da questo rischio.

Regina Elizabeth sa che nemmeno lei può garantire a nessuno, compagno, figli, amici, che non li abbandonerà mai, nemmeno ora che sa che cosa è l’abbandono in tutte le sue forme: lo ha fatto, più e più volte, non sapendolo e non volendolo, è vero, ma il fatto resta, ha abbandonato spesso i figli, ha abbandonato spesso il marito, gli amici.

E ora che si fa? La risposta sembra semplice, non resta che dispiegare le capacità e le sapienze di Regina Elizabeth, ed esplorare le possibilità di trovare o costruire una attività professionale i cui contenuti e le cui modalità siano abbastanza soddisfacenti, un buon modo per impiegare il tempo e le grandi energie che ancora ha a sua completa disposizione, e poi farlo.

Esplorare le possibilità di bonificare l’interazione, la relazione con i ragazzi, a sostenerli nel loro compito di accrescere le loro capacità di autoregolazione, di dedicare tempo ed energia allo studio, allo sport, alla socializzazione.

Esplorare le possibilità di migliorare l’interazione con amici e conoscenti, le possibilità di nuovi incontri e nuove conoscenze, anche in vista di un possibile nuovo compagno, capace di capire, comprendere, apprezzare, amare, ed aiutare… difficile, molto difficile, non impossibile.

Esplorare le possibilità di individuare una attività, per così dire, complementare, piacevole, diversa dal lavoro, che aiuti in modo specifico a mantenere l’equilibrio, capace di fornire possibilità di verifica delle capacità di allineamento virtuale-reale, conferma delle proprie abilità, e una adeguata quantità e qualità di interazione con i nostri simili.

Semplice, no?

No, decisamente no, la storia di Elizabeth fornisce evidenze inconfutabili.

 

Compresa, apprezzata, amata

Viva la Regina Elizabeth! Dio salvi la Regina!

Certamente sì, siamo felici, intensamente felici di vedere che è arrivata la Regina, lei metterà tutte le cose a posto, ne ha la capacità ed il potere… usciamo dalla similitudine, estremamente efficace dal punto di vista pratico, almeno questo ho direttamente sperimentato in molti casi, Re, Regine, Maestri e Maestre, sono i nomi più ricorrenti che trovano e accolgono coloro che aiuto, nomi per poterci comunicare, con bassissimo margine di errore, quale è il personaggio di cui stiamo trattando.

Ma il nostro racconto non è similitudine o metafora, riguarda aspetti estremamente concreti della loro vita, declina il come ci ha avuto a che fare, concreto, osservabile, in qualche modo misurabile, solo precisa, in coerenza con gli scopi dei nostri incontri, chi ha fatto che cosa.

E per noi non è del tutto sufficiente osservarne e descriverne la comparsa, rallegrandoci grandemente per la sua venuta, ne siamo certamente rallegrati, ma la domanda resta: Regina, Re, Maestro, Maestra, che diavolo sono? Da dove saltano fuori?

Non saltano fuori da nessuna parte, sono sempre stati lì, elementi non ancora integrati in questo modo, nella configurazione che chiamiamo Regina, ma presenti ed operanti: sono elementi generati dal Sistema di Pensiero Simbolico, a correzione e integrazione dei codici generati dal Sistema di Pensiero Operazionale.

Sistemi di pensiero

Il Sistema di Pensiero Simbolico ed il Sistema di Pensiero Operazionale non sono funghi spuntati adesso per legittimare e spiegare questa tesi, assai ardita, che converge e si conclude nella legittimazione e (speriamo) l’incoronamento di un personaggio, ulteriore elemento costitutivo del nostro Sistema Egoico: Il Sistema di Pensiero Simbolico ed il Sistema di Pensiero Operazionale sono due sistemi distinti, che compaiono nel corso della nostra evoluzione come specie, proprietà emergenti (così il paradigma sistemico consente di qualificarli) del nostro sistema neurale.

Proprietà emergenti che sono a loro volta identificabili come sistemi, cioè insiemi di elementi integrati dotati di una configurazione relativamente stabile e riconoscibile, in costante interazione con specifici e distintivi ambienti.

Accettando il ragionevole rischio di una eccessiva semplificazione, il Sistema di Pensiero Operazionale ha come ambiente di riferimento un ambiente virtuale (a sua volta proprietà emergente del nostro sistema neurale) i cui elementi sono costituiti da una parte del Sistema Emotivo (rimando la presentazione di questo e degli altri sistemi per ragioni di spazio e di opportunità, e rinvio, a malincuore, ad un mio testo del 2016), esattamente quella parte che registra un problema che il Sistema Emotivo non riesce a risolvere utilizzando gli elementi e gli algoritmi che gli sono propri, classicamente del tipo come-si-fa-per: attraverso l’impiego delle numerose varianti delle operazioni di somma e sottrazione, sì, i fondamentali + e -, elabora soluzioni, cioè pezzi di codici neurali, coincidenti con l’attivazione di specifici plessi della rete neurale, plausibilmente configurandoli per tentativi  ed errori, da integrare con i pezzi di codice neurale che costituiscono il problema non risolto, sia in vista di riuscire a replicare una copia che abbiamo potuto osservare della configurazione necessaria a conseguire gli effetti desiderati, sia in vista della individuazione ex novo della configurazione necessaria a conseguire gli effetti desiderati.

Insomma, copiare come si fa per svitare il dado di un bullone o trovare il modo di svitare il dado di un bullone che blocca l’apertura del coperchio di una robusta scatola di vetro corazzato che contiene ottimo cibo, e consegnare il codice al Sistema Egoico per un successivo eventuale utilizzo sono compiti del Sistema di Pensiero  Operazionale.

Il Sistema di Pensiero Simbolico, conquista evolutiva molto più recente, ha come ambiente di riferimento il Sistema di Pensiero Operazionale, esattamente quella parte che registra un problema che il Sistema di Pensiero Operazionale non riesce a risolvere utilizzando gli elementi e gli algoritmi che gli sono propri, classicamente del tipo che-cosa-è-questo, o che-senso-ha-questo.

Gli “algoritmi” di combinazione e connessione cui ricorre il Sistema di Pensiero Simbolico sono almeno tutti quelli che conosciamo da millenni sotto il nome di figure retoriche, raggruppate nelle tre classi note con il nome di similitudine, metonimia e sineddoche; attraverso l’attivazione del Sistema di Pensiero Simbolico troviamo la risposta al quesito: che intenzioni ha l’individuo che si sta avvicinando alla scatola di vetro corazzato contenente buon cibo, che ha il coperchio saldamente fissato da un bullone M20, con una chiave inglese in mano.

La Regina Elizabeth è un personaggio i cui elementi erano già ben presenti nell’incredibilmente vasto repertorio di neurogrammi di Elizabeth, configurato dal Sistema di Pensiero Simbolico, in grado di “leggere”, di riconoscere i codici operazionali che sono stati integrati negli altri personaggi, nella Principessa, in Antiope, in Iron Lady.

Regina Elizabeth è in grado di riconoscere il grande disegno, costruito pezzo per pezzo in decenni, di riconoscere di aver arruolato Arthur anche, se non soprattutto, per, nelle sue parole, nutrire la bimba affamata, in grado di “fare” tutto quello che gli altri personaggi non sono in grado di fare: Principessa, Antiope, Iron Lady sono routine estremamente stabili, di pronto impiego, obbligate a fornire risposte obbligate a tutte le questioni, le situazioni che incontrano, situazioni che vengono lette come copie di quelle già viste e risolte.

Regina Elizabeth sa che la verità è che solo i codici operazionali si ripetono, non le configurazioni di ambiente con cui abbiamo a che fare, soggette a continuo mutamento, magari impercettibile; sa che per alcuni scopi eminentemente “pratici”, molti mutamenti sono trascurabili, ma che non è bene, non aiuta, né tentare di arrestare il mutamento, trascurabile o rilevante che sia, né ricorrere ciecamente ai codici noti per governare l’interazione con ambienti mutevoli, negandone la variazione per ricondurli alle configurazioni di ambiente note rispetto a cui i vecchi codici hanno avuto successo.

La ricerca dell’appagamento

Regina Elizabeth ora sa un po’ di più delle radici, delle sue radici, della necessità di essere, oggi, capita, compresa, necessità che, come ogni essere umano, ha sempre avuto, dall’inizio della sua vita, necessità che nel tempo, nel corso del suo sviluppo, ha preso via via forme di possibile soddisfazione più articolate e complesse, tutte riconducibili al bisogno primario di tenere allineati i nostri mondi, ambienti reali e ambienti virtuali, di avere continua prova del proprio buon funzionamento.

Ma oggi, la forma dell’appagamento di questo fondamentale bisogno è quella congruente, in armonia con una splendida donna di cinquanta anni, esperta del mondo e della vita, madre di due figli ben più che affacciati alla adolescenza, frutto dell’obbedienza all’imperativo e ineludibile ordine di riprodursi, geneticamente ereditato, professionista esperta, intelligente e capace, temporaneamente non in servizio, saggia amministratrice di sostanze raccolte per proteggere una buona qualità di vita.

Forma di appagamento notevolmente diversa da quella necessaria alla bimba di cinque anni, già abbandonata e poi orfana di padre, diversa da quella necessaria ad una ragazzina spedita in un istituto scolastico retto da suore, diversa da quella necessaria alla giovane donna che completa gli studi superiori, diversa da quelle che seguono per arrivare fino ad oggi.

Legittimo e necessario appagamento da cercare e trovare ricorrendo a codici, per così dire, aggiornati, di ricchezza e complessità adeguate per governare l’interazione con i complessi ambienti con cui ha a che fare oggi, con i soggetti con cui ha a che fare oggi.

Si sa, sistemici o no, essere veramente capiti, compresi richiede interlocutori in grado di farlo, e con la voglia di farlo, non lo si può chiedere a tutti, non ai giovani figli, troppo presto, amici? amiche? mah, sì, forse, di certo non possiamo sfuggire alla necessità che il compagno, la compagna, una volta trovati, capiscano e comprendano, possiamo farne a meno per un po’, anche per lungo tempo, ma non troppo lungo, c’è un termine, superato il quale, come si dice, la relazione muore anche se il compagno o la compagna sono ancora lì, vicino a noi.

Come la storia di Elizabeth, certamente non l’unica al mondo, dimostra, ci è possibile “forzare” le prove che l’altro ci capisce e ci comprende, trasformando l’evidenza del no in un sì accettabile, non completo, ma accettabile: la Principessa e Iron Lady possono solo arruolare, ma non possono, per definizione, fornire al compagno, reciprocando, ciò che il compagno deve fornire loro, giorno dopo giorno.

E non ci sono dubbi possibili che tale bisogno, proprio quello di essere capito e compreso, sia vivo e forte anche nel compagno.

Regina Elizabeth ora sa un po’ di più della radice del desiderio di essere apprezzata, sa che viene da molto lontano, sa che in parte questo desiderio gioca con il bisogno di essere capita e compresa, essere apprezzati è una forma della conferma del proprio buon funzionamento, ma che c’è dell’altro, ha a che fare con il proprio posto nella comunità.

Non essere apprezzati è una condizione minacciosa, che ci avvicina alla espulsione dalla comunità, all’abbandono, all’essere abbandonati e trovarsi da soli a far fronte a tutti i pericoli, i rischi, le fatiche del sopravvivere: anche questo è scritto nel nostro DNA, serve da subito, da neonati, spinge a fare tutto il possibile per restare vicino a chi si prende cura di noi quando noi non siamo ancora in grado di provvedere minimalmente a noi stessi, spinge a cercare, alimentare e mantenere contatti e legami.

Essere apprezzati è una condizione favorevole per restare nella comunità, un po’ più al sicuro, un po’ più protetti, il gruppo è più forte di qualunque singolo soggetto: il comando è molto antico, vagliato e confermato attraverso innumerevoli generazioni.

Appartenere ad un gruppo, ad una comunità è uno dei correlati dell’essere apprezzati, un’altro correlato è il rango, è la possibilità di ottenere un rango più elevato, condizione generalmente ambita, chi più e chi meno, almeno in apparenza.

Con il rango non si scherza, significa avere a che fare con il diritto, riconosciuto dal gruppo, a maggiore o minore facilità di accesso alle risorse vitali, alla scelta di partner, alla maggiore o minore protezione dall’attacco dei predatori o dei competitori, umani e no.

Anche per questo bisogno, la forma del necessario appagamento cambia nel corso della nostra vita, e così è anche, naturalmente, per Elizabeth.

Le esatte parole usate da Elizabeth per comunicare il suo magnifico insight sono un ottimo abbrivio per tentare di affrontare il terzo aspetto, riprendiamole:

“Non lo so più cosa potrà accadere … come può l’amore fare così male… non é amore, o amare non è quello che ho fatto, era solo nutrire la bambina che ora ha ancora più fame di prima …”

Sull’amore, l’amare, l’essere amati la produzione artistica è impressionante, da millenni, quella scientifica meno, ma comunque imponente, potremo mai dire noi qualcosa di più, di diverso? Statisticamente, mi sembra poco probabile.

A noi, qui, interessa qualche pezzetto, stiamo lontani da qualunque pretesa ed aspettativa di esaustività: basicamente è il nome di una emozione, umana e, a quel che pare, non solo umana.

Si manifesta con gradi di intensità differenzialmente riconoscibili, pur mantenendo stabile la sua configurazione, disponiamo di un discreto numero di parole per indicare esplicitamente queste differenze, e sottili classificazioni differenziali legate ai contesti, amare lo sport è diverso dall’amare il proprio figlio, benché accettiamo che sempre di amore si tratti.

Come tutte le emozioni, gioia, paura, collera, l’amore è una sorta di marcatore, associato ad una serie di configurazioni di ambiente, che indica pressoché istantaneamente quali plessi sequenze di codici potranno essere attivati e quali no: nello specifico sono “favoriti” quei codici che hanno a che fare con l’avvicinarsi, il preservare, il proteggere.

E mi fermerei qui, per i nostri scopi questo può bastare: la radice del profondo bisogno di tutti di essere amati, primitiva, rozza, ma di enorme forza, è di avere vicino ciò e chi ci protegge, ciò e chi agisce per la nostra sopravvivenza.

La radice del profondo bisogno di amare è la incessante ricerca di configurazioni di ambiente favorevoli alla nostra sopravvivenza, e, una volta trovate, la protezione, la conservazione di quelle configurazioni.

Di nuovo, e, qui, per l’ultima volta, anche per questo bisogno, la forma del necessario appagamento cambia nel corso della nostra vita, e così è anche, naturalmente, per Elizabeth.

Regina Elizabeth lo sa, e può modificare i codici in modo da riuscire a trovare adeguato e legittimo appagamento, in armonia con chi lei è oggi.

Antiope, la Principessa, Iron Lady, loro non lo sanno, per loro tutto è già noto e risolto, si tratta solo di trovare e arruolare un nuovo Arthur, il disegno è un po’ malconcio, ma in parte si può recuperare… e se non lo si trova, fa niente, ne faremo a meno, si tratta di pazientare mentre i bambini diventano grandi, si sa, l’adolescenza è un periodo difficile, ce la faranno, ce l’ho fatta io in condizioni ben peggiori, loro sono privilegiati, si tratta di lasciar fare al tempo galantuomo, e prima o poi anche il vecchio Arthur cesserà di essere causa di pena,  e, infine, si tratta di trovare un lavoro… su, diamoci da fare.

 

 

 

 

 

 

Il governo instabile del regno

Forse questa volta riusciremo a formulare una risposta alla questione che abbiamo ancora in sospeso: che cosa minaccia Elizabeth, e che cosa e minacciato, al punto da tenerla in una condizione di continua dolenza?

Le tracce, i segni di una profonda tristezza, di avvilita disperazione sono evidenti ed inconfondibili, la dolorosità di tale condizione più e più volte dichiarata, il disordine, la irregolarità del riposo, del sonno, dell’appetito, gli sbalzi di umore caratterizzano lo stato in cui si trova Elizabeth.

Degli sbalzi d’umore ora ne sappiamo parecchio di più, Elizabeth ne sa parecchio di più, ma la dolenza risulta azzerata o molto ridotta solo quando Regina Elizabeth governa, e torna ad essere più o meno quella di prima quando sono gli altri personaggi a “regolare” l’interazione con gli ambienti.

E ciò che io ed Elizabeth abbiamo ripetutamente osservato e vissuto è che, dopo aver individuato, in qualche modo dato forma stabile alla Regina Elizabeth, sulla scena continuano a ricomparire e a governare Principessa, Iron Lady, e, più di rado, Antiope, portandosi dietro, riconoscibilissimo, il fardello della pena, del dolore acuto e presente.

Per quale dannato motivo, da un funzionamento che ottiene ottimi risultati, che azzera, sostanzialmente, la pena ed il dolore, torniamo nell’inferno da cui siamo pur usciti, rivedendo le stelle, torniamo ad attivare personaggi che inevitabilmente sono accompagnati da pena e dolore…

I risultati li abbiamo più volte ottenuti, e più volte verificato che erano indubbiamente correlati al governo di Regina Elizabeth: l’interazione con i ragazzi ne ha beneficiato, per un paio di settimane restavano a tavola con lei invece di fuggire ciascuno nei rispettivi videogame appena ingollato l’ultimo boccone, a volte nemmeno si presentavano; Frederick cessa di respingerla quando ella cerca di avvicinarsi con lui a ciò che lo fa soffrire, ottenendo la dolente confessione di “perché tutti mi abbandonano sempre?”, Frederick accetta che lei si avvicini mentre è arrabbiato e imbronciato, invece di mandarla via come faceva prima, e inventano insieme una cosa da fare insieme, cosa che poi faranno in seguito parecchie volte, mettersi vicini, distesi su un tappeto a guardare insieme le stelle, è poco, sì , pochissimo, ma qualche parola esce, mentre prima era il muro; Ethan con grande imbarazzo le chiede indirettamente aiuto, sta avendo episodi di enuresi notturna, succedeva anche prima, ed Ethan faceva di tutto per nascondere la cosa; quiete e lucidità nel gestire le intemperanze del ex-marito che sembra aver totalmente dimenticato alcune clausolette messe nero su bianco nell’accordo di separazione consensuale; la meraviglia di una vecchia amica ritrovata, Victoria, che si trova in una situazione abbastanza simile alla sua da sei anni, marito fedifrago e di fatto costantemente assente, figli della stessa età di Ethan e Frederick, separazione legalmente riconosciuta impossibile, e lei da sei anni ogni giorno ritrova e riprova le stesse pene della Principessa Elizabeth, per gli stessi motivi, nulla sembra poter cambiare, Victoria è meravigliata dal ritrovare la vecchia amica, dopo soli sei mesi dalla separazione, così …. così …. così trasformata, ecco, serena, sorridente, quieta, un solo filo di tristezza lega, a tratti, il racconto degli accadimenti dei mesi passati, nulla di più intenso, bella come non ricordava di averla mai vista, Elizabeth stessa che racconta di essersi sentita, poco dopo, finalmente, completamente, libera, Arthur non conta più nulla per lei, nessuna spina le si pianta nel cuore quando ha a che fare con Arthur, nell’ambiente reale e negli ambienti virtuali, solo un filo di tristezza per non aver saputo e potuto fare meglio per se stessa, per i ragazzi, e fiducia che avrebbe trovato il modo, un modo nuovo, per risolvere le difficoltà e superare gli ostacoli che incontra oggi, modi, istruzioni, codici che non ha ancora, ma che saprà , un po’ alla volta costruire.

E mentre, uno dopo l’altro, nel corso di settimane, raccogliamo questi risultati, tornano a dominare Principessa, e poi Iron Lady, e i bambini rifanno muro e si rifugiano nei videogames, Arthur è il perno intorno cui gira la giostra infernale della rabbia, della disperazione, della vendetta, dell’aspro rimprovero, nessuno di quelli che incontra è alla altezza, non c’è nessuno di interessante, non c’è nessun lavoro decente per lei, nessun lavoro che la interessi veramente, anche il club vada al diavolo, al diavolo il golf, al diavolo le camminate, al diavolo anche il cane, pianto, pena e dolore dilagano incontrastati.

Il dolore

Abbiamo già sbrigativamente risolto la questione del dolore, è segnale di minaccia, passiamo oltre, non abbiamo tempo, beh, ora quel tempo è meglio prendercelo: noi sistemici sappiamo 1) che qualunque comportamento osserviamo ha senso, 2) che qualunque comportamento osservato è frutto della individuazione del meglio che il soggetto può fare, 3) che qualunque comportamento osserviamo persegue e consegue, o almeno tenta di conseguire, un beneficio, un guadagno.

E quindi, se Elizabeth torna ad abilitare Principessa e Iron Lady ci sono buone ragioni, anche se noi non ne troviamo nemmeno una, ci sono, anche se per ora non riusciamo a vederle, a trovarle: se non riusciamo a trovare, con la massima precisione possibile, queste specifiche buone ragioni, non potremo individuare né le radici, che cosa alimenta questi comportamenti, né i benefici che questi comportamenti conseguono o cercano di conseguire, ne spiegarci come sia possibile che questo “tornare indietro” sia frutto del fare del proprio meglio di Elizabeth: tutti elementi, questi, indispensabili per aiutare Elizabeth a prendere decisioni, a imboccare e seguire sentieri che non la portino costantemente e immancabilmente a provare pena e dolore.

Decisioni e sentieri che Regina Elizabeth ha individuato con successo, ma che, con piena evidenza, portano a frutti e benefici che non hanno lo stesso valore, lo stesso “peso” dei frutti e dei benefici perseguiti e conseguiti da Principessa e Iron Lady, non ha la benché minima importanza che noi, ora, non riusciamo ad individuarli, o che, secondo noi, proprio non ce ne siano: ciò che è “secondo noi” vale poco o nulla, il punto è che cosa e come è secondo Elizabeth, Elizabeth che fornisce con grande continuità l’evidenza che impiegare Principessa e Iron Lady è meglio, per lei, dell’impiegare Regina Elizabeth, nonostante l’evidente pena e dolore che questo ha comportato, comporta, e continua a comportare.

Che cosa sia il dolore lo sappiamo tutti… o no?

Non credo esista essere umano vivente che non abbia mai sofferto, sperimentato dolore, tutti gli umani conoscono l’esperienza del dolore, le forme ed i modi sono molteplici, alcune forme e modi di espressione hanno nomi specifici, ciascuno di noi ne conosce una buona parte, se non proprio tutti, e distingue senza esitazioni, per dire, tra il mal di pancia da indigestione e il mal di pancia da preoccupazione, tra il mal di denti e il mal di testa, tra l’oppressione al petto da delusione amorosa e l’oppressione al petto da sovraffaticamento.

Dunque che cosa sia il dolore lo sappiamo tutti, in modo più o meno “ricco”.

Molti sanno che gli umani sono dotati di un sistema nocicettivo, che e appunto il sistema incaricato di gestire la sensazione dolorosa, nelle sue varie forme e intensità , in relazione alle diverse parti del nostro corpo.

Pochi sanno come è fatto questo sistema ed esattamente come funziona, e come modificarne, in modo mirato, il funzionamento.

Pochi di noi pongono attenzione all’ovvio significato del dolore, si interrogano sul senso del dolore, tutti presi, necessariamente, dal darsi da fare per ridurlo, se non eliminarlo, cosa in cui riusciamo quasi tutti con un certo successo.

Eppure è bene portare con sé, e usare in modo appropriato, questa ulteriore forma di conoscenza della natura del dolore, una risposta affidabile ad interrogativi che possono essere: che cosa ce ne facciamo del dolore, perché mai dobbiamo necessariamente sentire dolore, per quale ragione tra tutti i modi possibili che si potevano trovare, la natura, il nostro DNA ci costruisce così e ci affibbia un sistema nocicettivo che usa il dolore come forma di segnalazione.

Come spesso accade nelle umane cose, indagare l’ovvio porta a al non-ovvio, al non-scontato, a volte al mistero, al non-immediatamente-evidente: a me sembra non poi così ovvio considerare il dolore come salvezza, come prezioso e, almeno per ora, irrinunciabile, elemento di salvezza.

Così come non mi sembra così facile e piano tenere in mente, mentre siamo sotto l’attacco del dolore, che nella stragrande maggioranza dei casi la morte è ancora lontana.

E nemmeno che anche quando il dolore non ha, per quanto possiamo osservare, una fonte, una sorgente “fisica” (in questo momento sopporto il dolore successivo ad un piccolo intervento chirurgico che ho subito ieri), tuttavia c’è almeno un motivo, una ragione, una buona, ottima ragione, non di rado più di una, per sentire dolore.

Possiamo avere dubbi, possiamo anche non riuscire a identificare che diavolo sia successo o stia succedendo che correli alla nostra sensazione dolorosa, ma possiamo essere certi che, se sentiamo dolore, anche lieve, anche molto lieve, stiamo avendo a che fare con una minaccia alla nostra vita.

Per noi tutti è del tutto ovvio che l’intensità del dolore che proviamo sia direttamente correlata alla gravità della minaccia, anche se la scienza e la ricerca scientifica ci indicano numerose condizioni, gravemente minacciose, che non vengono intercettate e non attivano il sistema nocicettivo: l’ipertensione è solo uno degli esempi, ce ne sono tanti.

Ancora la scienza e la ricerca ci indicano condizioni in cui l’intensità elevata del segnale doloroso non corrisponde sempre ad una grave minaccia alla nostra vita, la cosiddetta tallonite potrebbe essere un esempio.

Dunque il sistema nocicettivo sbaglia, ci fornisce informazioni sbagliate? Mi sembra ingiusta questa pur possibile conclusione, meglio considerarlo come un sistema che ha limiti di funzionamento, specificità di funzionamento, e magari tentare di renderci conto e ragione dei possibili motivi dei limiti e delle specificità del funzionamento di questo preziosissimo sistema.

L’ipertensione non è stata messa, per così dire, sotto controllo stretto, nella nostra storia evolutiva, plausibilmente per la ragione che insorge dopo aver superato la quarantina, primo limite del ciclo di vita della macchina umana… anche quando non c’erano gli antibiotici qualcuno arrivava a sessanta, settanta anni di età , ma erano pochissimi, in genere si moriva prima, gli esperimenti di madre natura sono incessanti e senza limiti, per così dire, badare all’ipertensione non era tra le priorità di progetto.

Il tallone è vitale per potersi muovere rapidamente, e bisogna averne la più grande cura, qualunque cosa lo offenda ci mette alla mercè del predatore, e dunque occhio al tallone.

In ogni caso possiamo nutrire la più grande fiducia nel riscontro della affidabile correlazione tra dolore e minaccia alla vita, se c’è dolore c’è minaccia, se c’è pena allora c’è minaccia, sentiamo pena se e quando qualcosa ci minaccia: il segnale doloroso, la pena, apre immediatamente un sentiero che possiamo provare a seguire per scoprire che cosa ci minaccia, che cosa può sottrarci alla vita, e provare a impedire che accada.

Il grande disegno

Principessa e Iron Lady sono portatrici, scrivono e sono inscritte in un disegno, costituito da un numero imprecisato di ambienti virtuali, che è diventato impossibile allineare agli ambienti reali: nel disegno Elizabeth è capita, compresa, apprezzata, amata e mai mai mai abbandonata, né tantomeno tradita, imbrogliata, disprezzata, ignorata, il compagno ha le sue stesse priorità , la famiglia è prima e sopra a tutto, denaro, successo, prestigio, lusso sono poco o per nulla rilevanti; lei ed Arthur, insieme, assiduamente si occupano dei figli, che amorevolmente aiutano a crescere, a diventare grandi, belli forti, saggi, equilibrati, con forti e buoni valori, quelli veri, non quelli di cartapesta del mondo moderno, inconcepibile, semplicemente inconcepibile abbandonarli, se non per cause di morte… ma questa possibilità , che niente e nessuno può escludere né per se né per altri, è remota, molto remota, sono entrambi ancora giovani e godono di ottima salute, sì , Arthur ha messo su peso, e anche lei, ma nulla di significativamente preoccupante

Lei e Arthur hanno un certo numero di amici, che frequentano con regolarità , amici di famiglia e della famiglia, tutta gente buona e capace, che condivide i loro buoni e sani valori, valori che lei e Arthur rispettano e osservano nel loro condursi nella vita privata, in quella sociale, nella vita professionale; amici che hanno figli, come loro, figli che in buona parte diventano buoni amici dei loro figli, fanno parte della stessa squadra sportiva, molti sono compagni di scuola e di gioco, sentono solidarietà l’uno verso l’altro, si aiutano volentieri e spontaneamente, stare con i coetanei fa bene, aiuta molto.

Fanno vacanze insieme, loro quattro, a volte solo loro, a volte con amici, spendono piacevolmente insieme questo tempo libero, in pace e in un clima affettuoso e generalmente amorevole, non mancano gli screzi, si sa, siamo umani, impossibile che non succeda di litigare ogni tanto, ma non è mai nulla di grave, ci si capisce, ci si intende, se ne parla, si chiariscono ombre ed equivoci, si resta amici.

E loro due? Elizabeth e Arthur? Beh, sono ancora giovani, sani, si amano, è naturale no? accade da se , ci si cerca e ci si trova, gli impegni di lavoro, gli impegni sociali, la cura dei figli, e, ah già , anche dei genitori, rimasti in patria, lontani, ma sono ancora abbastanza giovani anche loro, in buona salute, ci si vede ogni tanto, in un clima buono e affettuoso, come tutti i nonni anche loro delirano per i nipotini, e si lamentano della brevità e della scarsità degli incontri, ma non più di tanto, quel po’ di sport che bisogna pur fare, non va bene impigrirsi, a parte la pancia che tende a continuare a crescere, si sa, l’età spesso porta con se questi cambiamenti… beh insomma, il tempo che resta è proprio pochino, le giornate sono impegnative, e la sera si è quasi sempre molto stanchi.. però anche tra le lenzuola trovano conforto, amore, piacere, entrambi sono, come dire, anche fantasiosi, continuano ad esplorare nonostante ormai siano anni che sono sposati, ce ne vorrebbe di più, ma come si fa?

Elizabeth aiuta Arthur nel suo lavoro, poco o per nulla visibile ad altri, se non durante alcune occasioni, Elizabeth nutre una enorme stima per Arthur, per come agisce, e non manca occasione per tesserne le lodi, Arthur la apprezza moltissimo, le dice spesso che senza di lei non sarebbe mai riuscito, non manca occasione per dire ad amici, a chiunque, quanto lei sia straordinaria.

Potremmo andare avanti ancora un po’, ma penso possa bastare, più o meno questo è il disegno che posso riferire, estratto pezzo per pezzo durante gli incontri con Elizabeth.

È Elizabeth stessa a riconoscere, a un certo punto, che si tratta di un disegno impossibile da realizzare per chiunque, non solo per lei: non fui per nulla sorpreso, Elizabeth ha doti e capacità considerevoli.

Pezzo per pezzo, insieme, abbiamo cercato di vedere e capire perché, perché per ogni pezzo le cose sono o non sono andate così, se avrebbero potuto andarci, a quali condizioni, o se proprio non potevano andarci.

Tralascio, per ragioni di brevità, opportunità e riservatezza, l’inventario di che cosa non è andato come il disegno indicava, di tutte le riflessioni, le osservazioni, i collegamenti individuati, dirò solo che, in buona misura, solo l’ultimo capitolo ha funzionato relativamente bene, quello del lavoro insieme, ribattezzato Premiata Ditta, per tutto il tempo, fino alla separazione.

I frutti, francamente invidiabili, dal punto di vista della rapidità con cui la Premiata Ditta (a nessuno può sfuggire la straordinaria somiglianza con la vicenda della mamma e del papà di Elizabeth) ha accumulato una piccola fortuna, parte della quale è stata, senza alcuna resistenza e obiezione, immediatamente riconosciuta come proprietà e insindacabile appannaggio di Elizabeth, all’atto della separazione, sono testimonianza più che sufficiente della buona prova fornita da entrambi sul fronte della gestione, come si dice, del business.

E anche il corredo delle reciproche attestazioni di stima e grande apprezzamento risultano, agli atti, ben più che sufficientemente comprovate.

Elizabeth, con me, prende lucido e consapevole atto della distanza tra ciascun aspetto puntuale individuato nel disegno, parte dei suoi ambienti virtuali, ed i loro corrispettivi individuati negli ambienti reali: per essere precisi, Regina Elizabeth, con un filo di tristezza, ma quieta e pacificata, prende atto e attesta esplicitamente la veridicità del nostro condiviso riscontro.

All’incontro successivo, la Principessa ricomincia imperterrita con il suo lugubre lamento, Iron Lady con i suoi rimproveri, Antiope con le sue minacce di morte e distruzione, immancabile la cornice, mi si passi la metafora, della dolorosa pena, acuta e implacabile.

È una beffa? Un gioco infernale in cui mi sono trovato, contro ogni mio desiderio e aspettativa? E anche fosse, come e dove troviamo le risposte che stiamo diligentemente cercando?

 

L’inferno a cinque stelle

Possiamo tentare di stringere il fuoco e di descrivere, meglio che possiamo, costi e benefici della vecchia strada, lungo cui incontriamo Principessa e Iron Lady, e della nuova strada, lungo cui incontriamo Regina Elizabeth.

E possiamo anche dirci che ora disponiamo di una ragionevole risposta alla questione iniziale, che cosa minaccia Elizabeth e che cosa è minacciato.

È minacciata, di più, impedita, la soddisfazione del bisogno fondamentale di riuscire ad allineare i mondi, ambienti virtuali e ambienti reali, ed ottenere prova del suo buon funzionamento: il fatto che là fuori non si presentino “minacce reali” non fa che peggiorare le cose, spingendo Elizabeth, nella ineludibile ricerca di una soluzione, a fare i conti con la seconda risposta verso cui tutti siamo spinti in questi casi, e cioè il sospetto di essere folli, pazzi, siamo noi, i nostri sistemi, i nostri codici a non funzionare, a non riuscire a dispiegare ciò che serve alla nostra sopravvivenza, pur nell’abbondanza di risorse di cui Elizabeth dispone.

Se Arthur fosse morto, cosa che Iron Lady e Antiope invocano con una certa frequenza, beh, il disegno, per quanto sfilacciato avrebbe potuto essere salvato, avrebbe potuto accettare la vedovanza con molto maggiore serenità e compostezza… sì, sarebbero rimasti i nodi dei bambini, il nodo di una relazione di coppia di non minore difficoltà di risoluzione, il nodo di relazioni sociali insoddisfacenti, il nodo di un lavoro in sintonia con i suoi talenti, brecce nello scafo della sua nave rabberciate per decenni, ma sarebbe riuscita ad allineare i mondi, e a proseguire la navigazione, in qualche modo.

Ma Arthur non è morto, è vivissimo, e continua ad avere successo, e al disegno, sin qui, non è possibile rinunciare, se non per brevi tratti.

È vero, lo abbiamo visto, Regina Elizabeth riesce ad allineare i mondi, riesce ad arrestare il contraccolpo del “allora ho sbagliato tutto”, riesce almeno ad iniziare a sciogliere i nodi che restano da finire di sciogliere, quando c’è Regina Elizabeth quel dolore, quella pena, non ci sono più.

Quando c’è Regina Elizabeth i bambini sono ragazzi, meravigliosi sconosciuti da conoscere, sorprendenti, spiazzanti, da aiutare nel raggiungere equilibrio e autonomia, nella espressione dei loro talenti, compito a cui non siamo preparati, gli “amici” sono quasi tutti buoni conoscenti, o semplici conoscenti, gli amici veri sono pochi, pochissimi, le dita di una mano bastano per contarli, gli incontri con nuovi soggetti non sono a scopo di arruolamento, l’appartenenza al club è solo un modo per avere accesso a nodi di rete di relazioni che possono aprire possibilità di buoni incontri e buone opportunità… ah già, opportunità di che? Ancora non sappiamo con sicurezza quali siano i talenti di Elizabeth, di che cosa potrebbe occuparsi con soddisfazione, siamo ancora alla ricerca, e prima o poi qualcosa troveremo, qualche indizio c’è, ancora tenue, ma non c’è fretta, continueremo a lavoraci, nella quiete della mente e del cuore che Regina Elizabeth può procurare.

Ma… ma?

Ma per tutti noi è difficile, citando da un vecchio film, non possiamo dimenticare chi siamo, né da dove veniamo.

Per tutti noi, ad ogni risveglio, il mondo in cui ci troviamo va ricostruito dalle fondamenta, l’attivazione completa del nostro sistema neurale rimette in gioco tutto ciò che abbiamo ereditato, frutto della evoluzione dei sistemi viventi durata oltre quattro miliardi di anni, tutto ciò che abbiamo clonato, copiato o costruito per tentativi ed errori, codici che letteralmente costruiscono la realtà, la nostra specifica, per molti aspetti unica e irripetibile realtà, codici che dispieghiamo per avere a che fare con la nostra realtà, inflessibilmente finalizzati a proteggere e sostenere la nostra sopravvivenza.

Lavoro che si compie in pochi secondi, naturalmente, di rado con la “partecipazione” della nostra consapevolezza, lavoro che ha per più che ragionevole presupposto che gli ambienti possono presentarsi con configurazioni ostili alla nostra sopravvivenza, e la prima cosa da fare, la prima cosa che viene fatta, sempre, è ricostruire tutto ciò che ci mette al riparo da possibili minacce.

In una sola parola: casa

Badiamo-al-sodo Nonna, Principessa Elizabeth Bimba, Elizabeth Iron Lady Mamma sono casa, così è stato ad ogni risveglio per quasi dieci lustri, Regina Elizabeth arriva molto dopo, arriva tardi, non nutrita dalle emozioni provate per diciottomila giorni, non costruita clonando inconsapevolmente pezzi di codici della nonna, della mamma, del papà, di chi è stato in compagnia di Elizabeth, o copiandoli.

Loro sono la risposta alla pena ed al dolore dell’abbandono, al punto che non troveremmo nemmeno troppo ardito pensare che la casa di Elizabeth sia riconoscibile per Elizabeth proprio grazie alla pena e al dolore, oltre che per la presenza, l’attivazione di ciò che in qualche modo l’ha protetta.

È abbastanza raro, per quanto ne so, ma non così raro, che il dolore, la pena, vengano usati in un modo diverso da quello che ci aspetteremo “normalmente”, non come segnali di allarme, ma come segnali di vita, come prove di buon funzionamento: alcuni atleti sono contenti quando sentono il dolore dell’accumulo di acido lattico nei muscoli, è sempre più diffuso il fenomeno di ragazzini e ragazzine che si procurano piccoli tagli dolorosi.

Non è impossibile che, per Elizabeth, vissuta nella giungla della pena da sempre, quella giungla sia casa, un luogo in cui sa come muoversi, sa che cosa fare, e che si trovi a disagio, un po’ stranita ed estraniata, quando non trova il marcatore della pena, marcatore che la conforta, perché per lei è segno che è arrivata a casa.

In ogni caso, le oscure parole con cui Elizabeth inizia a prendere temporaneo congedo dal lavoro con me, pronunciate in tono dolente,  risultano ora illuminate, con ogni probabilità sono il riverbero di ciò che lei ha trovato come muro insuperabile “fermiamoci, non ci riesco, non è mia, non è mia…”

Ad ogni suo risveglio il disallineamento si ripresenta, ed il primo riparo, la casa più sicura che è riuscita a costruire è quella costituita dai personaggi messi a punto per decenni, dove trova quella emozione che le conferma che lì è a casa, quella specifica emozione denotata dal nome di familiarità, sentirsi in famiglia.

A tratti, le riesce di “mettere sullo sfondo” i soliti personaggi, e ad attivare Regina Elizabeth, configurazione che, sebbene non completa, non saldamente stabile, tuttavia mostra un sorprendete capacità di efficace governo del regno: sembra plausibile che proprio questa condizione di work in progress sia stata emotivamente marcata come solo parzialmente familiare.

Alcune settimane prima della sospensione avemmo uno scontro che sentii come durissimo, pur sotto la veste di un “civile scambio di idee”: avendo riconosciuto che le configurazioni di ambiente, in particolare dell’ambiente reale, hanno naturalmente la proprietà di chiamare in gioco i codici prevalentemente impiegati per averci a che fare, stavamo cercando di vedere che cosa ci riusciva di modificare o della frequentazione, o della configurazione degli ambienti reali che richiamavano in campo con particolare intensità i codici noti.

L’idea era quella di trovare un po’ di respiro, di ridurre un po’ le “vecchie” sollecitazioni in modo da disporre di un po’ più di tempo ed energia per permetterle di “familiarizzare” la Regina, c’erano segni molto visibili di stanchezza.

Qualche giorno prima mi aveva riferito di non trovarsi più così bene nella casa in cui vive da alcuni anni, messa su da lei, data la pressoché totale assenza del marito, anche se aveva fatto sparire tutto quello che era appartenuto ad Arthur, l’aveva sorpresa avvertire distintamente quella sensazione, sensazione che non si era mai presentata prima.

Chi mi stava parlando era indubbiamente Regina, valutai eccessivamente invasivo, in quel momento, andare più a fondo, probabilmente avremmo finito per affrontare l’evidenza che la casa che aveva messo su era una delle espressioni del grande disegno, frutto dell’impiego dei noti personaggi, che continuavano a renderle difficile, se non ad impedirle, di governare stabilmente come Regina, e che, come Regina, legittimamente aveva bisogno di una diversa configurazione di ambiente… non era il momento, rinviai la questione.

E così, quando qualche giorno dopo tentammo di occuparci degli ambienti, del modo in cui spendeva il suo tempo ogni giorno, sperai che saremmo riusciti a riprendere quel filo, che vedevo come molto promettente: come toccai il tasto casa successe un putiferio, questa casa è la mia casa, va benissimo com’è, l’ho messa su io, da sola, è mia… quel giorno non c’era Regina, era successo molte altre volte, e le sessioni con gli altri personaggi erano state durissime, anche se in genere, ad un certo punto, Regina faceva capolino e più o meno riprendeva le redini.

Ma quel giorno non ci fu niente da fare, la sessione si trasformò, come di rado era accaduto, in uno sterile aggiornamento sullo stato di avanzamento dei lavori, i bambini, il club, la ricerca del lavoro, le immancabili ultime stronzate del ex marito, varie ed eventuali.

Lasciare casa? Cambiare casa? Naturalmente, se ci sarò costretta lo farò, a me serve molto meno di quel che c’è, basta molto meno di quel che ho, quando i bambini saranno autonomi, ancora dieci anni, più o meno, mollo tutto, zaino in spalla, e vado in giro per il mondo, c’è tanto da vedere, tanto da scoprire, viaggerò, quel che ho sempre voluto fare, e che non sono riuscita a fare, insomma un po’ sì, ma troppo poco, non ho bisogno di niente e di nessuno, la dove sarò troverò quel che mi serve.

Questo fu l’unico pezzo da cui tentare di estrarre qualcosa che potesse chiamare in gioco la Regina, una briciola poteva essere l’indizio di un suo talento, l’esplorazione… il resto era evidentemente frutto dei codici noti, ennesima presentazione di una possibilità di difesa finale, di ritiro totale da tutto e tutti, basato sulla negazione della esistenza di bisogni, numerosi e complessi, ineludibili, variante ennesima del già noto zurück zur Natur.

Non ci è dato non cercare e ottenere riparo e protezione, non ci è dato non avere casa, non importa se quella nell’ambiente reale ha la forma di un tetto di frasche o di un attico di un palazzo di lusso, di una catapecchia nascosta in un bosco o della reggia di Versailles, la nostra casa virtuale può solamente essere modificata, mai lasciata.

E spesso, come vediamo, modificarla perché si adatti a ciò di cui abbiamo bisogno, presenta grandi difficoltà, rischiamo di restare prigionieri della casa costruita decenni prima, magari una casa di bambole, perché no, mentre ciò di cui abbiamo bisogno è una casa adatta ad un soggetto adulto, pienamente sviluppato… lo so, similitudini e metafore non fanno parte del linguaggio scientifico, ma non dimentico né permetto facilmente che ci dimentichiamo che queste forme espressive indicano cose concrete, attivazione di plessi sequenze di codici neurali.

E nemmeno dimentico che la ricerca scientifica, che progredisce e scopre verità sempre migliori, lo fa utilizzando tutto il repertorio, similitudine, metonimia, sineddoche, senza questo repertorio non può procedere.

Tuttavia Elizabeth sembra avere, non una, ma mille ragioni: pena, dolore, paura sono sì dolorosi da sopportare, ma là, nella vecchia casa, al riparo della vecchia casa, sono stati messi sotto controllo.

La nuova casa non c’è ancora, non sente familiare la Regina, che pure ha dato ottima prova di sé, al dolore noto e “domato” della vecchia casa, ora si somma, si aggiunge il dolore della paura, ignoto nei suoi sviluppi, inevitabilmente intrecciato alla esplorazione di territori non conosciuti, e come tali potenzialmente pericolosi, che, è vero, promettono meraviglie, promettono una casa migliore, non abitata dalla pena e dal dolore... promettono, ma ancora questa nuova casa, questo nuovo e più efficace riparo non è pronto, non posso sentirlo familiare, non riesco a sentirlo casa.

E, ad ogni risveglio, è la vecchia casa che mi dà immediata ospitalità, a volte, se non sono troppo stanca, riesco ad uscire in esplorazione, riesco ad attivare la Regina, a volte no, e questo mi fa paura, e mi fa tornare di corsa nella vecchia casa: sì, è un inferno, io questo inferno lo conosco, ci vivo da quando sono nata.

E poi sì, è di certo un inferno, ma è anche un inferno a cinque stelle, frutto dell’indefesso lavoro di Iron Lady, di badiamo-al-sodo-nonna, della Principessa, la villa è principesca, il tesoretto è al sicuro, i bambini sono un po’ problematici, vabbè, frequento gente di rango… che cosa può offrire e portare in dote la Regina?

E siamo ad un bivio, plausibilmente quello a cui è di fronte Elizabeth: o cerchiamo il modo di “irrobustire” e stabilizzare la Regina, che, non va, credo, assolutamente, dimenticato, ha già dato ampia e convincente prova di soddisfacente funzionamento, oppure lasciamo perdere e ci teniamo l’inferno a cinque stelle.

Gli ostacoli rispetto al sentiero di trovare il modo di irrobustire e familiarizzare la Regina sembrano insuperabili, possiamo accettare che sia fondamentalmente per questo motivo che Elizabeth chiede di fermarci.

Per ora, e non so per quanto ancora, Elizabeth è lì, e da settimane, ad ogni risveglio, nel cuore della notte, al mattino, o dopo gli sporadici sonnellini pre-uscita serale, il miracolo della ricostruzione del mondo si ripete, il disegno che non si riesce ad allineare, il pronto intervento di tutte le note figure, di tutti i noti personaggi presenti da decenni, talvolta anche della Regina.

E da settimane, parecchie, troppe, ci siamo anche noi… per l’esattezza, ci sono anch’io.

Aspetto fiducioso che Regina Elizabeth, da sola, senza il mio aiuto, completi il lavoro? Onestamente, no.

Dopo circa quattro settimane dalla sospensione, ricevo un aggiornamento direttamente da Elizabeth, mi scrive che sta eliminando tutti, rinunciando a tutti quelli che non sono allineati a lei, che non approvano e apprezzano immediatamente, senza se e senza ma, le sue azioni, i suoi statement, le sue decisioni, i suoi pensieri, le sue convinzioni, a partire dalla mamma, liquidata tra i primi, seguita da un’altra, la sua più cara amica, già testimone alle sue nozze e madrina del primogenito, liquidata in pochi minuti dopo due decenni di intensa e affettuosa amicizia… non lo dice espressamente, ma sembra implicitare che sono liquidato anch’io, come vedi non abbiamo molto da dire,  non trovo niente di meglio che inviarle un emoticon, quello con un sorrisetto a mezza bocca.

Quelle operazioni per me hanno il sapore di una epurazione, senso e finalità mi sembrano agilmente leggibili, togliamo di mezzo gli oppositori del disegno e delle attuali governanti, Principessa e Iron Lady, la soluzione è allineare, il più possibile, gli ambienti reali al disegno infernale.

Il silenzio stampa si mantiene per molte settimane, poi, candida candida, una domenica mi scrive, chiedendo se va tutto bene, e se per caso ho parlato di lei ad un tizio, suo ex collega di quindici anni fa, che ha rivisto di recente dopo circa dieci anni di silenzio.

Un lapidario “no” è la risposta che invio, il silenzio è il secondo commento ad una sua annotazione, che segue il mio laconico “no”, di sapore cripto-complottista: molto strano, magicamente dopo anni ci siamo ricontattati e durante la call ha usato termini e logiche che sono molto “sistemiche”, mi ha confermato che qualche contatto in passato c’è stato evidentemente ha lasciato il segno.

Questo scambio cade dopo che da qualche tempo, avevo finalmente iniziato a scrivere la storia che ora, passo passo, mi accingo a concludere, meglio che so e posso, decido di non elaborarlo in alcun modo, certamente di non ricamarci sopra proprio nulla, lo prendo come semplice espressione di un segnale vitale, è viva, e plausibilmente in buona salute… e ferma al punto in cui ci siamo lasciati.

Continuo a pensare e scrivere, o almeno a provarci.

Il quadro sembra completo, ma continuo ad avere la sensazione che ancora qualcosa ci sia sfuggito, in parte, magari non del tutto, forse è meglio dare un’altra buona occhiata al percorso fatto, in estrema sintesi Elizabeth patisce come un cane perché il suo disegno, salvifico, più e più volte rabberciato, non può più essere allineato.

Le stesse figure attraverso cui lo ha costruito negli anni sono ad un tempo parti del disegno e configurazioni impiegate per avere a che fare con gli ambienti, loro sono casa, dolente fino all’incontro con Arthur, felice o forzata nella felicità quanto più era possibile per quindici anni, e poi di nuovo miserabilmente dolente.

Negli anni “felici” l’esecuzione del disegno ha dato buoni frutti, figli, denaro, status, famiglia, lavoro, ricompensando fatiche e pene intensamente vissute per oltre trent’anni: e ora tutto è finito, tutto è distrutto.

Per l’esattezza, ed è meglio essere precisi, il disegno è “distrutto”, i frutti restano, e sono frutti di valore, la famiglia resta famiglia anche quando il consorte, per qualche motivo, viene a mancare, la forma è diversa da prima, la sostanza resta.

Il disegno è stato costruito e attuato, portando indubbi ed evidenti benefici e vantaggi, frutti concreti, e soprattutto “proteggendo” Elizabeth durante gli anni della crescita, del suo sviluppo e della sua maturazione, e, di nuovo, continuando a proteggerla durante i quindici anni di matrimonio.

Ora Elizabeth sta per compiere cinquanta anni,  lo stesso disegno non può più essere perseguito, e nemmeno sembra molto sensato cercare di ricominciare da capo, un altro Arthur, ambizioso, anche senza gli occhi azzurri, la fertilità è finita, altri figli non verranno, così tante le variazioni da fare, mission impossible: allora cerchiamo di modificarlo, tenendo ciò che è buono, e cambiando ciò che non lo è più, fu uno dei passi che tentammo, e anche se per me, al tempo, non era possibile rispondere alla domanda, allora, che cosa teniamo?, beh, lo avremmo visto insieme, passo dopo passo.

Non rimasi molto colpito dal fatto che Elizabeth avesse proposto la similitudine con una fortezza da ristrutturare, che il disegno avesse avuto anche, se non soprattutto, una forte valenza difensiva, di protezione dagli attacchi dei nemici, mi sembrava starci senza grossa difficoltà, ma un po’ la cosa mi suonò sbilanciata.

Per provarci ci provammo, ma il disegno si dimostrò molto più resistente del previsto: i ragazzi tornavano bambini, le difficoltà e le fatiche con loro tornavano a presentarsi nelle forme note, le redini continuava a riprenderle Iron Lady, la Principessa continuava a ripresentarsi.

Perché?

Quale è il vantaggio, il beneficio del continuare ad alimentare e a cercare di realizzare, di allineare un disegno che ha riconoscibilmente cessato di dare frutto?

Perché, ad ogni risveglio, la casa dolente viene rimessa in piedi?

Questo continua a sfuggire alla nostra presa, non lo possiamo permettere.

 

 

Verdetto: NON COLPEVOLE

Certo che sarebbe tutto più semplice se avessimo Elizabeth ad aiutarci… o forse no, come si fa a sapere.

E ora, che si fa?

Non so, davvero non lo so, continua a ronzare, nella mia testa lo stesso ritornello: il disegno è il rimedio, le “personagge” ne sono parte e ne sono i difensori, anche se non fanno solo quello, il rimedio neutralizza, nella vita di oggi, le fonti di pena e dolore che hanno tormentato Elizabeth per almeno due decenni, i suoi primi due decenni, disegno più che ambizioso, insomma una roba da film, è un disegno vecchio, oggi, messa di fronte di  nuovo ad un abbandono, il disegno emerge prepotentemente, ancora a scongiurare e combattere ciò che si era presentato nei primi due, tre decenni di Elizabeth, ma è troppo sfilacciato, non regge, non sta in piedi, è la stessa Elizabeth a riconoscerlo, ma non riusciamo a modificarlo, come un pupazzo a molla continua a saltare fuori dalla scatola.

Sono sicuro che, se anche non mi riesce di sapere, di comprendere, come ciò sia possibile, che senso abbia, beh, so che è la cosa migliore che Elizabeth può fare ora, so che se accade c’è almeno una buona ragione, magari più di una, ma quale, perdio, quale? Quali?

Se Elizabeth riabilita Iron Lady e Principessa, nonostante la loro evidente incapacità di governare la complessità della sua vita di oggi, nonostante abbia sperimentato e verificato la sua possibilità di ricorrere a Regina, ottenendo ben altri risultati, ci sono ragioni, ma quali, perdio quali?

Riparo solido, benchè penoso, quello vecchio, riparo e strapuntini nuovi sono molto efficaci ma randomici, impossibile familiarizzarli, renderli stabili, ma perché, in nome di dio, perché?

È un abbandono, con tutto quello che porta con sé e implica, d’accordo, ma non accade ad una bimba di cinque anni, accade ad una donna di cinquanta, ben altre risorse, e resta, indubitabile, il dato di fatto di partenza: nulla, dell’ambiente reale, minaccia ora seriamente Elizabeth.

Rischia di diventare un ritornello idiota, se Elizabeth agisce come agisce la  minaccia c’è, ad ogni risveglio gli eserciti si risollevano e la lotta ricomincia, che cosa vede e sa Elizabeth, che cosa si para davanti agli occhi di Elizabeth mentre la nebbia del sonno svanisce… non il disegno, quello è il rimedio, non Iron Lady e Principessa, anche loro sono i rimedi, rimedio a che, rimedio di che cosa?

Se ancora noi non lo vediamo, non abbiamo risposta pronta e limpida, nemmeno Regina Elizabeth ce l’ha: potrebbe intervenire se lo sapesse, ma non lo sa.

Iron Lady è una risposta, non la sorgente, non la minaccia, almeno lei risponde, come sa, come può, Regina Elizabeth non sa rispondere, dato che non vede alcuna minaccia: ecco, questo è un punto su cui potremmo chiedere a Elizabeth di illuminarci, di dirci che cosa le compare davanti agli occhi, che cosa arriva per primo alla soglia della sua consapevolezza, della sua coscienza ad ogni risveglio, una sorta di proustiano esercizio di recherche.

Non le arriva solamente, o principalmente, l’elaborazione dello stato dell’arte degli ambienti reali in cui si trova, se fosse così non solleverebbe gli eserciti.

Questa risposta non l’abbiamo, ma abbiamo frammenti, tanti, sparsi, non collegati, vediamo se riusciamo a recuperarli e collegarli… un sospetto, da qualche tempo, ce l’ho, lo tengo a bada, corro il rischio di “inventare” una soluzione di comodo, una bella idea che mette tutto d’accordo ma che non coglie la verità di Elizabeth, serve solo a pacificare me.

In questi anni ho incontrato parecchi enigmi di questo tipo, alcuni mi si sono presentati estremamente vicini, altri sono stati portati da clienti e allievi, e c’è un filo comune che, nel tempo, mi è sembrato emergere… torniamo indietro un po’, al passo in cui ci siamo chiesti come Elizabeth ha avuto a che fare, sin dall’inizio della sua vita, con gli abbandoni, e con quali abbandoni.

La colpa

Notavamo che, abbastanza stranamente, non si presentavano segni che rimandassero alla classica soluzione che ogni bambino adotta, che sembrava che Elizabeth avesse semplicemente sopportato il dolore (la minaccia) degli abbandoni ripetuti.

Sia degli abbandoni “fisici”, data in adozione alla nonna, mamma e papà che compaiono e scompaiono come pupazzetti a molla, poi presto orfana, sia di quegli onnipresenti e continuativi abbandoni costituiti dal non essere compresi, nonna non la comprende, ha altro da fare, la zia non capisce, papà e mamma non capiscono, a tratti ci sono sprazzi di luce, sulla bici con papà, il gioco della lotta con la mamma, poi torna nel “normale” abbandono… il conforto del buio dell’armadio in cui si rifugia è piccola cosa, ma forse non poi così piccola.

Elizabeth, come tutti i viventi umani, ha assoluto bisogno, per il suo buon funzionamento, di allineare ambienti reali e ambienti virtuali, di ottenere prove continue del suo buon funzionamento, di individuare che cosa si collega a che cosa, che cosa causa che cosa, che cosa è conseguenza di che cosa, nel linguaggio comune di “dare senso”, anche di dare senso a ciò che le accade ogni giorno, di dare senso all’abbandono, agli abbandoni.

Abbandoni che, non va dimenticato, mai, sono vicini, per i piccoli della nostra specie, alla pura catastrofe, è in gioco la vita.

Quella che di solito chiamiamo colpa immaginaria è una delle forme della predisposizione, plausibilmente geneticamente ereditata, a ricorrere ad una soluzione molto particolare quando affrontiamo problemi insolubili, del tipo di quelli costituiti dall’abbandono da parte dei nostri simili, soprattutto in quella fase della nostra vita in cui la presenza del simile-che-si-prende-cura-di-noi è di particolare rilevanza per la nostra sopravvivenza.

In altri casi, questa speciale soluzione, prende il nome di magia, di pensiero magico, capace di costituirsi come connessione tra elementi altrimenti impossibili da collegare, come “risposta” altrimenti impossibile da ottenere, il discorso ci porterebbe lontano, e in territori impervi, magari un’altra volta.

È perlomeno plausibile che anche Elizabeth, nonostante l’assenza di prove palmari, abbia finito per adottare questa soluzione, per rendersi, in un certo senso, sopportabile e relativamente dominabile la continua esperienza degli abbandoni: è colpa mia.

Colpa porta con sé il riscontro di inadeguatezza, di difettosità, ragione motivo e causa dell’abbandono, impossibile, per il piccolo bambino, considerare la possibilità che sia il grande, il care taker, quella specie di semidio onnipotente, ad essere colpevole, difettoso, inadeguato, non all’altezza del compito: la predisposizione genetica, plausibilmente, tiene anche conto della necessità di favorire la cosiddetta “socialità”, proteggere appartenenza e permanenza nel gruppo,  la ribellione al care-taker incapace risulta meno “vincente” della quiescenza… e poi, statisticamente, meglio un care-taker incapace che nessun care-taker.

E anche la ribellione che abbastanza frequentemente si presenta nel corso della adolescenza non è affatto incompatibile con l’iniziale e prolungata frequentazione della soluzione: è colpa mia.

I contenuti di tale colpa, della colpa immaginaria, raramente presentano difficoltà di reperimento, qualunque dettaglio, aspetto, azione, può facilmente essere integrato: con le parole che vengono conquistate nel corso dello sviluppo sono descritte configurazioni che chissà da quanto tempo si presentano negli ambienti virtuali del bambino, sono brutto, pasticcione, non sono capace di fare questo o quello, non ho risposto come si deve, sono stupido, sgraziato, ho fatto cose proibite, repertorio ricchissimo.

La colpa è, in questi casi, una soluzione magnifica: in questo modo i mondi si allineano, e disponiamo di almeno un modo per avere a che fare con questa ostile configurazione di ambiente reale, ne governiamo almeno il prendere forma, conoscendone la sorgente, in un certo senso la “controlliamo”, non è più qualche cosa che può comparire dal nulla, impossibile da prevedere quanto minacciosa, non è più priva di senso.

Certo il prezzo è alto, siamo manchevoli, difettosi, inadeguati, strutturalmente a rischio costante di essere mandati via, difficile essere apprezzati, anche se possiamo tentare di nascondere la colpa, a volte si riesce, magari anche spesso, magari anche per tempi molto lunghi, finché non ci scoprono siamo al sicuro, nascondere la colpa è un lavoraccio, faticosissimo…

Passo e ripasso, cerco e torno a cercare indizi, se Elizabeth ha preso quella via, dall’inizio della sua vita, se ha trovato e alimentato quella soluzione, allora è questo ciò che le si presenta prima di ogni altra cosa nelle nebbie del risveglio, l’abbandono da cui è stata colpita ormai quasi un anno fa ha richiamato la soluzione di un tempo, ti hanno scoperto, certo che è colpa tua, sei inadeguata, difettosa, ti hanno beccato… il disegno, Iron Lady, Principessa accorrono all’istante.

Molto presto io ed Elizabeth attraversammo, più volte, il passo del “ho sbagliato tutto”, a fronte dell’abbandono del marito, della frana del disegno, dopo avere per lungo tempo inveito contro il bastardo egoista, si aprì l’orizzonte dolente del “ho sbagliato tutto, dall’inizio”.

Il racconto, la narrazione, i loro contenuti, sono riverberi, effetti collaterali dell’esecuzione di codici, chi stava parlando, chi stava dicendo “ho sbagliato tutto”?

Non Iron Lady, per definizione lei non sbaglia mai, non la Regina, lei sa e capisce che possiamo usare solo ciò che abbiamo e sappiamo, che la conoscenza acquisita, conquistata “dopo” non può essere usata “prima”, che abbiamo fatto del nostro meglio, che non possiamo che fare del nostro meglio, sempre, per tutta la vita; la Principessa è piccola, una bimba, plausibilmente è lei ad imboccare, ancora e ancora, il sentiero del “ho sbagliato tutto”.

A questo mi oppongo, con fermezza, “nutro” la Regina con quanto ho di meglio nel mio repertorio, e poi Regina mette insieme i pezzi, e dopo un po’ smettiamo di avviarci lungo quel sentiero: ma quel “ho sbagliato tutto”, i suoi ovvi correlati, io sono sbagliata, nulla è in me di buono o di valore, rimandano alla antica soluzione della bimba, è colpa mia.

Un altro sentiero imboccato fu quello del “Arthur sì che vale, io valgo poco o nulla, so fare poco o nulla di vero valore, marginale”, anche a questo mi oppongo, con non minore fermezza, e, come prima, Regina mette a posto le cose: “valgo poco o nulla” di nuovo rimanda alla colpa.

E ancora, verso i figli, rispetto alla difficoltà di aprirsi a una diversa modalità di avere a che fare con due ragazzini in difficoltà, “sono una mamma inadeguata, lo sono sempre stata, io per prima li ho abbandonati, sono un disastro, loro meritano di meglio”…

E ancora, l’eros, il sano e giusto godimento dell’eccitazione erotica, dell’esplosione che premia la nostra obbedienza alla prima legge della vita, sostanzialmente impedito… su questo lo “scontro” fu durissimo, mi minacciò con violenza, ingiungendomi di non toccare mai più l’argomento, urlando che era totalmente inaccettabile che una relazione autentica, profonda, vera, potesse fondarsi su questo.

Eppure non vi è donna o uomo che possa onestamente negare che la mancanza di “questo” sia la prova di non essere amati veramente, apprezzati veramente, accolti e compresi veramente, che intensi e prolungati sforzi profusi per ottenere la prova dicano al compagno tutto quello che gli serve sapere circa quanto è davvero attraente, amato, voluto, desiderato, speciale e unico, in un linguaggio che precede ogni lingua, il cui contenuto non può essere contraddetto o smentito in nessuna lingua.

Come l’eros, sostanzialmente bloccato e inappagato sia connesso al disegno di Elizabeth non fu possibile approfondire, a maggior ragione come questo “curioso” effetto collaterale sia connesso alla “colpa originaria” di Elizabeth, di cui il disegno è figlio, frutto e rimedio: ci sono molte possibilità, ma l’unica di valore è quella di Elizabeth.

Come ancora da scoprire è la connessione con la “curiosa” e dichiarata assenza di passioni, niente mi ha veramente mai appassionato, non a mia memoria: che la connessione vi sia è fuori discussione, molte le possibilità, di nuovo, l’unica di valore è quella di Elizabeth.

Stando ai frammenti che abbiamo raccolto, al loro valore indiziario, la colpa, quella colpa, la migliore soluzione che la bambina Elizabeth poteva adottare quando c’era bisogno vitale di una soluzione immediata, finiamo dunque per ritrovarla in tutti gli ambiti significativi della vita di Elizabeth, la cosiddetta “autostima”, l’essere mamma, l’essere moglie, l’espressione di sé attraverso il lavoro.

Gentile Regina Elizabeth, lo devi sapere anche tu, gli indizi che ti ho portato, per te, sono sufficienti: quella colpa immaginaria, che ha sì salvato la Principessa quando tu ancora non c’eri, è ciò che arriva per prima, nella nebbia del risveglio, a dirti che sei in pericolo perché colpevole, ad iniziare il lavoro di ricostruzione dei mondi per la veglia, a innescare quasi istantaneamente le protezioni che hanno funzionato per decenni.

O nostra Regina, lo devi sapere, in modo che tu possa agire sapientemente, e, ad ogni risveglio, di guardia e sentinella, prima che scatti l’allarme che solleva i tuoi eserciti, regalmente, come solo tu puoi fare, pronunci distintamente il tuo verdetto: non ti sei macchiata di alcuna colpa, sii in pace.

 

 

 

 

Quel che resta da fare

Ci sono ancora alcuni sentieri da percorrere, alcuni iniziati, altri relativamente nuovi, altri sostanzialmente nuovi: Regina Elizabeth potrebbe certamente farcela da sola, con quello che ha trovato, con questi ultimi “pezzi” che le ho spedito, sforzandomi non già di obbligarla, ma di favorire meglio che so e posso la possibilità che Regina li veda, li guardi, e, mia speranza, se ne appropri.

Del resto, sono sua legittima proprietà, abbiamo lavorato molto e intensamente insieme, la fatica non è stata piccola, da nessuna delle due parti, i frutti sono di entrambi, certamente anche suoi.

Quindi il mio lavoro è finito, il mio scopo raggiunto, il mio servizio concluso?

Per ora no, non ancora: ben oltre il mio comprensibile desiderio di avere le prove che Regina riesce e conduce una vita soddisfacente, cosa a cui, per mestiere, devo essere pronto a rinunciare per il miglior vantaggio del mio cliente, del mio allievo, della mia allieva.

Il mio desiderio è un conto, il mio bisogno di prove riguarda me, l’amore (sì, proprio amore) che nutro per ciò che faccio non può né deve trascurare di onorare in ogni istante la loro libertà, il diritto all’autodeterminazione, come si diceva tanti e tanti anni fa, la nostra natura autopoietica, e ancora riguarda me: il voler essere presenti e informati a tutti i costi può significare quel che non deve, controllo, egoismo piratesco, niente di buono. E questo li può ostacolare.

Il mio lavoro finisce quando entrambi troviamo che è bene separarsi, magari temporaneamente, chi lo sa, senza termine certo, senza divieti, senza colpe, entrambi fiduciosi e in pace.

Liberi.

Fino ad allora, come è adesso verso Elizabeth, è solo sospeso, sine die, come si usava dire, sospeso, non finito: e anche ora, per considerarlo completato, a me serve qualcosa di più di quel che è in tavola, resto in servizio, volentieri e di buon animo, per tutta la mia vita, se così dovrà essere.

A me piace così.

Ci sono ancora alcune cose che la Regina non sa, o rischia di dimenticare, in scienza e coscienza, tra queste la difficoltà di “vedere”, nei disegni pur realizzati, o nelle cose usate quotidianamente, pezzi del vecchio codice mutaforma, capaci cioè di presentarsi sotto forme diverse, ma portatori dell’obbligo alla stessa destinazione, in modo assai simile a quei plessi sequenze di codici neurali che costituiscono la antica soluzione trovata dalla Principessa: certo che sono codici neurali, che cos’altro potrebbero mai essere?

Ci abbiamo messo un tempo considerevole, nonostante il mio supporto e concreto aiuto (sì, proprio così) a stanare qualcosa che ad entrambi è rimasto lungamente nascosto, e che, in un certo senso, solo la triste e imperativa sospensione imposta da Elizabeth ci ha permesso, alla fine, di riportare alla luce, quel tanto che basta perché non possa più rintanarsi nel buio della inconsapevolezza.

Stando al programma, al software “standard”, la Regina non poteva né doveva esistere nella attuale configurazione, sapere, nemmeno immaginare, di avere a che fare con gli effetti collaterali di una colpa immaginaria, codice elaborato in parte milioni di anni fa, e poi completato all’inizio della vita di Elizabeth: anche ora contiamo sulla probatorietà degli indizi che abbiamo raccolto, del tutto possibile che altro non riusciremo a  recuperare, con la migliore buona volontà e le più oneste intenzioni.

E, per la sua configurazione, non le è possibile avere a che fare con ciò che non cade sotto la presa della consapevolezza, della coscienza di sé: perché?

Possiamo leggere questi vincoli come espressione dei nostri dispositivi di protezione, qui specificamente dedicati ad impedire, o rendere molto difficili e improbabili, modifiche dei codici che hanno avuto successo, in modo non molto dissimile, concettualmente, da come vengono protetti i file di sistema dei nostri computer: essi sono normalmente nascosti e protetti, non visibili al normale browsing, e resi non modificabili, i tentativi di sovrascrittura o modifica delle sequenze vengono impediti.

La soluzione è-colpa-mia, nella specifica configurazione adottata da Elizabeth è stata una soluzione efficace, un codice chiave per permetterle di “funzionare” in quel contesto, avendo a che fare con ciò con cui aveva a che fare: meglio metterla al sicuro.

Per avere a che fare con questi codici è necessario, almeno inizialmente, almeno per un po’, disporre dell’aiuto di qualcuno, da soli non ce la possiamo fare, cambiare questi codici, pur non essendo impossibile, risulta una operazione estremamente improbabile, affidata alle combinazioni casuali che costellano la nostra esistenza che si possono configurare in modo tale da “obbligarci” ad un cambiamento di codice.

L’aiuto “esterno”, pur essendo possibile, risulta efficace solo a condizioni estremamente restrittive (di nuovo l’effetto dei nostri sistemi di protezione), soddisfatte le quali, in qualche misura, diventa possibile avere a che fare con i vecchi codici nascosti e protetti: il software di base prevede che noi eseguiamo “gli ordini”, che in misura limitata integriamo i codici operazionali perché siano adatti a governare l’interazione con alcune variabili ambientali, che, nel corso dell’avvicendarsi delle generazioni, possono mutare, aggiustamenti del tipo di tastiera, del linguaggio del correttore automatico, stili dei caratteri, e poco altro.

Elizabeth potrebbe farcela da sola, ma, sin qui, in scienza e coscienza, è estremamente probabile che impiegherebbe parecchio tempo a completare il lavoro, mentre, con un valido aiuto, i tempi sarebbero molto più stretti, e la fatica plausibilmente minore.

I nodi da finire di sciogliere, o da sciogliere, li conosciamo, almeno i principali

Stabilizzare il disinnesco della continua ricostruzione del disegno antico, e, con questo, il cieco ridisporsi di Iron Lady e Principessa al governo delle interazioni con gli ambienti, in particolare degli ambienti, reali e virtuali, che riguardano le persone che fanno parte della sua cerchia, a partire da Elizabeth stessa.

Stabilizzare il presidio di Regina nel governo delle interazioni con gli ambienti, reali e virtuali, che afferiscono ai figli, sistemi viventi.

Stabilizzare il presidio di Regina nel governo delle interazioni con gli ambienti, reali e virtuali, che afferiscono al nuovo, legittimo, possibile compagno, realmente capace di comprenderla, apprezzarla, amarla e aiutarla, sapendo che a sua volta sarà capace di fare lo stesso, libera dal disegno antico e dalle coartazioni che l’antico disegno imponeva, anche, se non soprattutto, da quelle che riguardano l’eros.

Stabilizzare il presidio di Regina nel governo delle interazioni con gli ambienti, reali e virtuali, che afferiscono alla individuazione di ambiti e modalità di espressione dei propri talenti nel perimetro del lavoro, e nel perimetro di quelle attività necessarie a completare l’insieme degli allineamenti e di ottenimento delle conferme di buon funzionamento, al di fuori del perimetro del lavoro.

Naturalmente, resto di guardia.

Epilogo

Pollicino

Iron Lady e la Principessa tengono chiusa la Regina nella più alta torre del castello, sì proprio quello che somiglia al castello di walt disney, e non permettono a nessuno di vederla, né permettono a lei di ricevere visite, tantomeno le mie.

Era del tutto prevedibile che, stando così le cose, non avrei potuto condividere con la Regina quanto ho cercato di descrivere qui, e così non sarei riuscito a portare a termine il compito che la Regina stessa mi aveva assegnato: mi serviva uno stratagemma, e, dopo un po’, mi venne in mente qualcosa che avrebbe potuto funzionare.

Riporto qui le missive inviate, omettendo di riportare, per riservatezza, le risposte di volta in volta ottenute.

 

Cara Elizabeth

Desidero pubblicare il racconto del lavoro fatto insieme, di cui hai già visto il primo capitolo, che ho integrato con un pezzo nuovo, magari quello non lo hai visto.

Come hai potuto verificare, ho fatto in modo che tu non potessi in alcun modo essere riconoscibile, e ho mantenuto alta la guardia della riservatezza nello scrivere i capitoli successivi: mi piacerebbe molto avere il tuo consenso alla pubblicazione, anche se nulla di ciò che ho scritto, come potrai vedere tu stessa, infrange la necessaria riservatezza.

Per questo ti mando, in anteprima, il secondo capitolo: vorrei pubblicarlo sul mio sito venerdì, e spero che il tuo consenso arrivi tra oggi e domani.

Lo stesso farò per i successivi, sono in tutto dodici brevi capitoli: certamente sarò felice di ricevere qualunque tuo commento e osservazione.

A presto

UB

 

Cara Elizabeth

Ti ringrazio per la solerte celerità della tua risposta, non meno che per la schiettezza, che ti è propria, e che per me è molto preziosa.

Alcuni aspetti di ciò che mi hai scritto li comprendo e li condivido, altri li comprendo e non li condivido, altri li comprendo forse, e non li condivido, sin qui… ma è del tutto possibile che sia la mia carente comprensione a influire negativamente sulla, pur assai desiderata, condivisione.

La questione, a mio sommesso parere, sembra porsi in modo eccessivamente complesso per poter essere serenamente risolta con uno scambio di email, e, per quanto mi è possibile contare sulla solidità della conoscenza che credo di avere di te, sono completamente fiducioso rispetto alla nostra capacità di individuare una soluzione accettabile per entrambi.

Per questo ti propongo di vederci a strettissimo giro, penso che quindici minuti saranno più che sufficienti per comporre in modo soddisfacente, per entrambi, questa divergenza, che tra noi non deve e non può esistere.

Soprattutto questa è per me motivo della urgente necessità di incontrarci: a me è possibile domani, giovedì, alle 11:30 (tue 10:30), oppure venerdì alle 9:30 (tue 8:30)

Naturalmente, sino a che non ci saremo incontrati e non avremo trovato la necessaria composizione, sospendo la pubblicazione, che pure, per me, ha ora grande rilevanza e urgenza.

Attendo fiducioso un tuo cenno ed una tua eventuale proposta alternativa

Ricambio l’abbraccio

Ugo

 

Ciao

È urgente per me, e non sono tenuto a spiegarne le ragioni. Necessità? Non mi sembra una necessità, per ora la vedo più come una opportunità: mi sembra largamente preferibile una soluzione negoziata ad una soluzione unilaterale.

Abbiamo due desideri, uno ciascuno, fin qui apparentemente inconciliabili, gioco a somma zero, sappiamo come va a finire.

Negoziare ci può permettere di tentare, almeno, e non è escluso a priori che riusciamo a trovare una buona soluzione, secondo me ci sono ottime possibilità.

Ma occorre negoziare.

L’alternativa è, brutalmente descritta, che tu ti limiti alla azione di negazione del consenso, e io decido, in libertà, dato che nulla mi obbliga ad esaudire il tuo desiderio, che cosa fare: a me così non piace per niente.

Dammi credito di sapere, con sufficiente grado di sicurezza, con chi ho a che fare: i tuoi impegni sono importanti, e credo lo siano anche i miei, penso che quindici minuti basteranno, le due opzioni che posso proporti sono sabato mattina, mie ore 10:00, tue 9:00, oppure domenica mattina, mie ore 9:00, tue ore 8:00

Fammi sapere

UB

 

Ciao

Sono contento della soluzione che abbiamo trovato, ti mando un capitolo al giorno, che toglie il medico di torno, escluso questo fine settimana che hai dedicato a te e ai ragazzi: mi fido del tuo impegno, non ho bisogno di alcuna prova che tu abbia realmente letto ciò che ti mando, se vorrai mandarmi note e commenti saranno più che benvenuti, a tua completa discrezione.

Più o meno ci vedremo tra una decina di giorni, e rivedremo insieme la questione.

Buon lavoro

 

Negoziammo, brevemente, inviai un capitolo al giorno, dopo due settimane Elizabeth mi chiese ancora qualche giorno per inviarmi il suo “feedback”, era impegnata in una operazione immobiliare complicata, concesso senza fiatare, poi il feedback arrivò.

 

Ciao Ugo

Grazie per la pazienza, e il  modo  creativo di esserci anche se io non voglio 😊

 

Ho riletto ancora le pagine che mi hai mandato, riassunto violento e colorato di questo ultimo anno.

Non ti nascondo che in alcuni passaggi mi sono davvero irrigidita. Non nascondo neppure  il dolore che hanno fatto riemergere, la vergogna per cose dette con rabbia e cattiveria che forse oggi non direi piu’ con la stessa foga, ma allora era quello il modo in cui emotivamente  potevo affrontare le cose, nello stesso tempo  la consapevolezza che alcune dinamiche ormai sono archiviate.

In generale se vuoi pubblicarlo non vorrei comunque riferimenti così definiti, ci sono parti della descrizione che non sono accurate, tipo io studentessa modello, o le tempistiche di tradimento e la sovrapposizione delle due amanti …ma tanto alla fine della fiera non cambia nulla. E’ solo superficie, il nocciolo della questione sta altrove.

Hai il mio ok, tra qualche anno, come mi hai detto, questa storia non mi appartiene piu’ quello che dovevo trattenere e’ dentro di me e negli occhi dei miei figli che ogni giorno mi insegnano cosa vuol dire amare e esserci.

 

Penso ad Arthur sempre meno, mi fa ancora rabbia pensare alle menzogne inutili e alla estrema mancanza di rispetto. Ma non e’ piu un problema mio. Ogni giorno scopro che un noi vero e’ stato solo per poco, o forse neanche per quello, che l’illusione di felicita’ e’ stata solo tale, ero felice del mio disegno, ma nella realtà si viveva un altro film.

A volte le lacrime scendono ancora ma solo per bevi momenti.

La voglia di morire ha lasciato spazio alla voglia di riprendere la mia vita, per me e per I miei figli. Non ho bisogno di Arthur per questo.

Ho scardinato alcuni codici antichi, grazie a un incontro che non avrei mai creduto di poter accogliere; invece, ho trovato lo spazio dell’anima e nella vita reale che mi ha permesso di riconoscere una Elizabeth dolce, passionale e sensuale.  Ho respirato sensazioni bellissime, da protagonista, non da comparsa, momenti senza tempo, non hanno un futuro, probabilmente,  ma sanno di buono e va bene così.

Un altro paradigma, nuovo, che lascia spazio a nuove prospettive.

Lavoro: qualcosa si sta muovendo, e sono contenta, anche se è piccola cosa, è la mia… ora sono un po’ in tensione per il colloquio, un incarico che è il mio sogno, ma che potrebbe cambiare totalmente la gestione del tempo.

Ho paura anche che dopo tanti anni io non sia più cosi preparata e performante per fare quello che mi piace fare…so che lo spirito e la motivazione non sono legati alla carriera, ma alla rinascita… non voglio sperarci ma se sara’ vedrò come affrontarlo

 

La strada e’ ancora non chiara ma alcune cose sono definite. Io non lascio i ragazzi, non rinuncio a esserci nella loro vita, anche se questo vuol dire cambiare le mie ambizioni.

Se un uomo deve entrare in questa situazione dovra’ essere capace di conquistarmi e avere le qualita’ di animo e di vita che servono per capire e esserci per me anche così.

Non mi illudo, ci saranno tanti momenti ancora duri…ma so in che direzione muovermi.

 

Dovrò anche recuperare alcune connessioni che ho lasciato fuori, per un po’ era necessario, ma non passa giorno che non senta che mi mancano e sono parte del mio cuore.

 

Ciao

Elizabeth

 

Ultima udienza

Chiesi udienza alla Regina, e la ottenni.

Il racconto di Elizabeth ripercorse, lindo e ordinato, quanto mi aveva scritto, aprendo un poco più esplicitamente sul significato e sulla rilevanza dell’aver trovato “una Elizabeth dolce, passionale e sensuale”, il suo incontro con il suo desiderio, di profondità e intensità mai provati prima, in tutta la sua vita, e lo sconvolgimento del suo pieno appagamento, mai accaduto prima, in tutta la sua vita.

In me fu giubilo.

E un filo di rammarico, in parte legato al desiderio, deluso, mio e suo, di ottenere questi risultati in un tempo minore, e con fatiche minori… ci sono bastati pochi minuti per riconoscere che non sarebbe stato possibile, e che anche quella che mi imputavo come “lentezza” nel cogliere con chiarezza e decisione il nodo della colpa (capitolo 11) era una illusione postuma, i tempi di elaborazione e integrazione di Elizabeth non potevano essere accelerati più di così.

In parte legato al non aver potuto constatare, di prima mano, il pieno raggiungimento dei cinque obiettivi che avevamo individuato, di dovermi contentare di un “parziale” su alcuni:

dolenza: azzerata, a parte alcune, rare, punte occasionali… nulla rispetto a prima, riposo soddisfacente, anche se in questi giorni turbato dalla eccitazione dell’incontro, ripetibile e ripetuto, con il pieno appagamento del suo pieno desiderio, della prospettiva del possibile nuovo lavoro, appetito, come sopra.

nuovo lavoro: in corso d’opera, oltre a quello dei suoi sogni altre due opportunità, minori, ma soddisfacenti

nuovo compagno: in corso d’opera, magari non sarà questo, ma ora sappiamo che è possibile, ne abbiamo le prove

Ethan: in corso d’opera, buoni risultati intermedi

Frederick: in corso d’opera, scuola quest’anno un disastro, ma in recupero

 

Ora Elizabeth desidera e ha bisogno, nelle sue parole, di respirare, di riambientarsi, di tempo.

E così presi congedo, in pace, entrambi visibilmente commossi, lei dicendomi ciao Virgilio, ed io… volete che mi sia fatto sfuggire la battuta? Ciao Regina, belle, le stelle, eh?

 

Conclusioni e ringraziamenti

Lo stress da separazione, il lutto, ci si presentano ora come qualcosa di abbastanza diverso dalle rappresentazioni comuni: per tutti è così?

Fin qui sembra estremamente improbabile, l’originalità irripetibile delle vicende di ciascun umano vivente non sembra compatibile con alcun “formato standard”: sulla base degli elementi che ho potuto raccogliere di prima mano, e che certo non riguardano che pochi soggetti rispetto al “tutti”, resto anch’io un poco sorpreso da quello che abbiamo trovato, su cui rifletterò ancora.

Mi sembra però che sia possibile che, nei frangenti della separazione, si possano trovare alcuni aspetti condivisi, il primo dei quali potrebbe essere la relativa marginalità della separazione stessa: non è tanto la separazione, in sé, ad essere sorgente di pena e dolore, quanto gli effetti collaterali correlati alla separazione.

Effetti collaterali che per ciascuno hanno, plausibilmente, forme e configurazioni diverse, riflettendo le diverse configurazioni dei codici, tratto distintivo e irripetibile di ciascuno: siamo simili dal punto di vista della nostra configurazione sistemica, siamo/abbiamo sistemi molto simili, e siamo simultaneamente diversi, poco o molto, rispetto ai codici.

La casa, per ciascuno di noi, presenta diversità considerevoli, la casa interna, intendo, e credo plausibile che le separazioni si configurino come specie di terremoti virtuali che squassano la casa, privandola del tratto di protezione che le avevamo conferito: come abbiamo visto, casa sono i personaggi ed i disegni, le vicende saranno dunque diverse in relazione ai personaggi di ciascuno ed ai disegni di ciascuno.

Il filo della colpa emerge spesso, credo sia estremamente raro che da piccoli, durante il nostro sviluppo, non succeda di essere colpiti dall’abbandono, in una o più delle sue molteplici forme, e ancora più raro che, in qualche misura, non ricorriamo a quella antica soluzione, sempre pronta all’uso: la separazione si costituisce come innesco che ha forti probabilità di riuscire a riattivare quelle antiche “soluzioni”, anche in assenza di disegni e personaggi fortemente radicati in quella particolare soluzione, insomma anche quando la casa non è costituita principalmente da elementi che sono il rimedio all’abbandono.

La vicenda di Elizabeth lasciata dal marito può essere letta in molti modi diversi, un’altra Elizabeth avrebbe potuto restarci male, ma considerato che il marito non c’era praticamente mai, che l’eros? ah sì, quello sconosciuto, che le conversazioni erano noiosamente sempre le stesse, business, business e ancora business, cheppalle, che il tesoretto era al sicuro, che ha sì cinquant’anni, ma è vivace, belloccia, che quando entra in qualunque stanza, beh, ha personalità, oltre che bellezza, e fa la sua porca figura, salute ottima e energia da vendere, alla fine meglio che si sia tolto dai piedi, magari lo poteva spremere un po’ di più, ma si sa, la scienza del poi è l’unica scienza esatta.

Oppure potremmo prendere il punto di vista di Arthur, e leggere la vicenda usando il canovaccio del secondo episodio di un vecchio film di Germi, 1966, Signore e Signori, gli esiti sono certamente diversi, ad Arthur non è toccato finire all’ospedale, dopo quindese ani de amor.

Un’altra Elizabeth, non questa, non la nostra Elizabeth… un’altra Elizabeth, capace di quelle risposte, difficilmente sarebbe entrata in quella vicenda, e le vicende delle sue separazioni sarebbero molto probabilmente assai diverse da quelle che abbiamo incontrato qui.

Cercare una risposta “standard” allo stress da separazione, capace di eliminare lo stress da separazione è compito vano, prima ancora che impossibile, la nostra unicità, l’unicità di ogni vivente lo rende tale: a ciascuno il suo.

Che ci siano altri elementi comuni, benchè di configurazioni diverse, mi sembra evidente, dalla nostra vicenda emergono, per così dire sullo sfondo,  per coglierli ed elaborarli in modo soddisfacente e comprensibile ci servono altre narrazioni, altre vicende.

Ringrazio profondamente Carla, Raffaella e Stefano, per il loro prezioso aiuto, per il ricco e stimolante confronto di queste settimane, per essersi cimentati nella lettura e discussione di ciascun capitolo, una mia lunga narrazione di vicende di qualcuno che loro non conoscevano, di riflessioni e pensieri a loro solo in parte familiari: non credo che da solo ce l’avrei fatta, il cammino, anche se per me chiaramente individuato, era decisamente impervio.

E certamente ringrazio Elizabeth.

Postfazione

Ho voluto attendere quattro anni, prima di pubblicare questo articolo, non certo per questioni di “stagionatura”, ma per doverosa cautela nel proteggere la privacy di Elizabeth… che, naturalmente, è persona che non risponde a questo nome, così come non corrispondono una buona serie di dati, età di alcuni soggetti, luoghi, mestieri, e altro ancora.

Ho necessariamente conservato fedeli i riferimenti indispensabili alla soddisfacente comprensione di quanto ho cercato di presentare qui: a parte le comprensibili e scusabili “falsificazioni” narrative che ho sommariamente indicato, la narrazione è veritiera, rispondente narrazione di accadimenti.

Ammetto assai volentieri la mia infinita stima e totale riconoscimento del genio freudiano, che mi è stato compagno e maestro “virtuale” fin dalla mia prima adolescenza, a quel tempo risalgono le prime letture dei tre saggi sulla sessualità, e poi delle lezioni di psicoanalisi, per me sconvolgenti e di difficile comprensione in quegli anni,  e poi, nei due decenni successivi, dell’intera opera, che acquistai, a rate, in una libreria Feltrinelli,  data la scarsità di moneta dei “comuni” studenti.

Ora l’opus, nei bei volumi editi da Boringhieri, frutto dei piccoli risparmi di uno studente (ora decisamente vecchio… ma ancora studente attivo) è su uno scaffale della libreria di mio figlio, ogni benedizione sia su di lui, e nel mio kindle… da tempo lì conservata, le ultime riletture risalgono a qualche anno fa, ma è con me, confortante amico nella quotidiana ricerca di senso, di connessioni tra ciò che mi accade e che osservo intorno a me,  risposte oggi migliori di ieri, e domani di nuovo insoddisfacenti.

Avevo pensato di intitolare questo lavoro Elizabeth Q. , scimmiottando il celebre lavoro Anna O. , gioco fantasioso innocuo seppur piacevole: il mio amico ha visto e cercato di descrivere ciò che nessuno, mai, prima, era riuscito a intuire, ed è stato fermato, nel suo geniale lavoro, da quello che aveva sotto gli occhi, da ciò che la storia reale aveva portato sulla sua spiaggia,.

La mia storia inizia poco più di cento anni dopo, lui non ha potuto vedere ciò che io ho visto, i personal computer, i monitor a colori, la rete, le formidabili ricerche sui neuroni specchio, a me tocca riconoscere questi limiti, senza disconoscere che, a differenza dei “fedeli” freudiani, senza colpa né merito, a me è toccato in sorte di continuare il lavoro del maestro ed amico, il privilegio di dirgli, con immutata stima ed affetto, che il suo Io è troppo povero e manchevole, e così il Super Io, e così il suo Inconscio, la sua Libido, e così quasi tutto ciò che gli è stato possibile descrivere… certamente molto meglio del niente che lo ha preceduto, chapeau.

Resta, per me indiscutibile, l’intuizione grandiosa descritta in uno dei suoi ultimi lavori, Costruzioni nell’analisi, sintesi di ciò che ha attraversato e osservato da quando diede alla fiamme la seconda parte della Entwurf einer Psychologie, per avviarsi decisamente e senza rimpianti ad aprire il sentiero psicoanalitico, riprendendo alcuni straordinari frutti della grande pianta degli studi sull’isteria: lungo sarebbe ricondurre esattamente a questo ganglio ciò che potremmo chiamare il potere delle narrazioni, non qui e non ora.

Intuizione che porge come assiomatica la inderogabile necessità di fornire parola e racconto alla storia vissuta dal paziente, storia cancellata dalle potature neurali, dal meccanico, ciclico, prodursi di rimozioni funzionali a “stabilizzare” il mantenimento del livello evolutivo che ciascuno di noi raggiunge, progressivamente più completo e complesso, mentre attraversa la prima e la seconda infanzia, per affacciarsi alla prima adolescenza.

Non si tratta di “ricostruire il trauma”, è che la ricostruzione o la costruzione plausibile è una condizione necessaria, non sufficiente, per tentare di modificare quei codici che, a distanza spesso di decenni, a nostra insaputa, sostengono e guidano l’esecuzione delle nostre azioni.

L’evidenza pratica della utilità ed efficacia della costruzione o ricostruzione “narrativa” trova piena rispondenza in uno dei fondamenti della teoria sistemica del comportamento umano e della pratica di “intervento” sistemico: è certo ancora una ipotesi, molto forte, ma una ipotesi, il riscontro solido e indubitabile che forse potremmo o potremo ottenere dalla ricerca neuroscientifica, ad oggi, non c’è, il riscontro empirico di tanti ricercatori e praticanti le cure dell’anima è troppo spesso raccolto con metodi e pratiche così dissimili da rendercelo poco o nulla utilizzabile.

 

Nella pratica dell’intervento sistemico, sostenuta e guidata da una robusta teoria sistemica del comportamento umano, immancabilmente si dimostra essere un “passo” obbligato, verso cui tendere, in vista del frutto che immancabilmente riusciamo a cogliere, la stabile “conquista” e ricorso a plessi sequenze di codici neurali, con e attraverso cui governare, il più efficacemente possibile, la nostra interazione con gli ambienti reali e virtuali, con ciò con cui abbiamo a che fare, nel segno del benessere.

Intervento sistemico che è, in scienza e coscienza, solo e semplicemente un intervento educativo.

È  intervento educativo di cui tutti noi, da secoli, avremmo dovuto poter fruire, fin dai primi anni di vita, e che ci è stato negato: non già da una proterva e malevola immaginaria “autorità”, prona e obbediente ai comandi di chi, altrettanto immaginario, ha disegnato per noi i classici bivi tra cui “scegliamo” il sentiero migliore da prendere, ricco o povero, sfruttatore o sfruttato, vittima o persecutore, sapiente o ignorante, allo scopo di perpetrare ingiusta predazione, i privilegi dei pochi, le fatiche dei tanti… questi sì, sono personaggi totalmente immaginari, benchè essi popolino pressoché ogni tipo di narrazione non scientifica.

E nemmeno per scarsità di risorse disponibili da dedicare alla educazione evoluta, necessariamente sistemica, risorse enormi e sovrabbondanti sono oggi dispiegate a sostegno della educazione che tutti noi conosciamo, ottenendo i frutti che abbiamo tutti davanti agli occhi.

Se tutta la specie Homo Sapiens, in ogni parte del pianeta, agisce in questo modo, come è oggi assai facile riscontrare, c’è una ragione, almeno una.

 

 

[1] Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate homo sapiens,  Diamond Jared, Bollati Boringhieri , Torino, 1991, vedi Cap.5

[2] Analisi terminabile e interminabile e Costruzioni nell'analisi, Freud Sigmund, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, vedi Costruzioni nell’analisi (1937)

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